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P. Boccia replica con Morreale a proposita di situazioni identitarie in Albania

Da Antonio P. Boccia

Secondo Stefanie Morreale il dirigismo dittatoriale, che era stato presente in Albania durante quasi cinquant’anni di comunismo, farebbe sentire ancora i suoi effetti negativi nel pensiero popolare e, più in generale, all’interno di una parte della società albanese, generando una sostanziale situazione di arretratezza mentale, in senso lato (nonostante sia passato un quarto di secolo dalla caduta del regime): tanto che solo il benefico e virtuale contatto tra gli albanesi emigrati, poi ‘‘migranti di ritorno’’, e chi invece è rimasto in patria – secondo questa tesi – riuscirebbe a garantire, se pur con resistenze, l’ingresso di tutta la nazione albanese nella piena ‘‘modernità’’ di stampo europeista, cioè in quel sistema aperto e propositivo che è proprio dell’Europa occidentale.

Tale tesi – di per sé – abbastanza paradossale, innanzitutto per il notevole lasso di tempo trascorso dalla caduta del comunismo – trova in un sostanziale disaccordo quelli che, come lo scrivente, frequentano la terra delle aquile (personalmente lo faccio da cinque anni): e in effetti, che questa tesi sia basata su una visione erronea, lo si ritiene per una serie di motivi, che qui saranno brevemente specificati.

Invero, se è innegabile che l’isolamento voluto da Enver Hoxha abbia nuociuto non poco al processo democratico del Paese, e che esso abbia in qualche modo ostacolato una progressiva e complessiva ‘‘crescita’’ della popolazione albanese, ristretta nel suo orizzonte interno per svariati anni, tale considerazione quale causa di arretratezza del pensiero identitario non può che essere ritenuta del tutto indeterminata e generica, oggi, se non la si raffronta a vari settori e categorie albanesi (soprattutto al settore economico, a quello sociale e politico, e a quello culturale).

Con questa premessa, pur senza entrare troppo nel dettaglio, è utile analizzare la questione in base alle tre direttrici appena indicate, rapportate ovviamente alla attualità.

In primis, dunque, non si può non riconoscere che, all’indomani della caduta del muro sovietico (per l’Albania, quindi, siamo a cavallo tra il 1990 e il 1991) nel settore economico del paese schipetaro è nata, spontaneamente, una forma di liberismo con pochi freni, con la nascita di una emergente borghesia che correva nell’affannosa ricerca del benessere: era il frutto evidente di una reazione più che fisiologica al dirigismo centralizzato del mondo comunista.

Ma, pur con tutti i limiti dettati dal contingentamento del modello socialista, già di per sè il paragone di stampo puramente economico con altri paesi balcanici (come la Grecia) ci deve far riflettere: di fatti, sotto il profilo comparativo, quando venne riaperto il confine Epirota, fu subito evidente che ciò che si vedeva, sui due lati contrapposti, altro non era che una forma differente dello stesso processo economico.

In effetti, è impossibile negare che una evidente opera di modernizzazione aveva avuto luogo anche in Albania, durante gli anni del socialismo reale: perché Hoxha, convinto sostenitore del socialismo scientifico-industriale, aveva creato una sistema industriale piuttosto avanzato che, per l’epoca, garantiva la produzione di quasi il cinquanta per cento del reddito nazionale complessivo.

Inoltre, anche il mondo agrario era notevolmente migliorato, perché era stato avviato dal partito il processo di recupero dei terreni abbandonati e del miglioramento dell’irrigazione, soprattutto mediante l’introduzione di nuove tecniche di coltivazione meccanizzata.

Sotto il profilo politico, invece, è chiaro che la dittatura aveva impedito per mezzo secolo all’occidente ‘‘democratico’’ di intervenire nelle vicende albanesi: ma, nello stesso tempo, è altrettanto vero -ed è sotto gli occhi di tutti- che dopo il ‘91 la società albanese, man mano, ha saputo costituire un apparato democratico, frutto di libere elezioni e di autentica alternanza (cosa, quest’ultima, che a volte non riesce nemmeno ai tanto progrediti paesi dell’euro-zona), realizzando in tal modo un sistema che oramai ha festeggiato già il suo venticinquesimo anniversario.

Un sistema, quello della Repubblica d’Albania, che, anche sotto il profilo normativo – senza imposizione alcuna – ha saputo guardare a Paesi come la Francia, l’Italia e la Germania, per ispirarsi alla riforma dei suoi codici legislativi. Con intuitive conseguenze, che è inutile descrivere in questa sede.

Tale forma statuale, certamente democratica, sorta come sappiamo sin dai primissimi Anni Novanta del Novecento, può dunque essere stigmatizzata, dai teorici dell’arretratezza, fino ad un certo punto: se è vero, d’altronde, che la stessa U.E. ha accettato la pre-adesione dell’Albania, indirettamente è stata sottolineata, per l’appunto, la sostanziale bontà del sistema stesso, ed il progresso delle sue istituzioni che, salvo poche modifiche, in realtà sono le stesse di venticinque anni fa.

Infine, la tesi della necessità della contaminazione tra le idee ‘‘evolute’’ dei migranti di ritorno e quelle (evidentemente ‘‘retrograde’’) della popolazione rimasta in sede, con conseguente arricchimento culturale della seconda categoria, trova una clamorosa bocciatura in sede socio-culturale.

Innanzitutto perché non è possibile dimenticare che, durante la fase comunista, l’ istruzione statale era stata completamente riformata: sin dal 1946-47 essa era pubblica, gratuita, obbligatoria e laica. Inoltre era stato promosso dall’apparato statale un preciso programma per sconfiggere l’analfabetismo (che, dopo poco più di una trentina d’anni, era praticamente vinto); ed altresì erano state edificate varie scuole superiori (anche tecniche, commerciali e professionali). E, in fin dei conti, perché il sistema accademico è sempre stato di rilievo.

Realmente, e a ben vedere, l’Albania di oggi è un Paese moderno, che sta cercando di realizzare uno sviluppo progressivo e definitivo in sede amministrativa, con una economia di mercato, e che sta portando avanti se pur con qualche difficoltà – un processo di ammodernamento dei suoi servizi pubblici (si pensi, a titolo esemplificativo, al Kesh) e di rafforzamento delle proprie infrastrutture statali.

Alla luce di queste considerazioni (che può fare agevolmente chiunque conosca bene l’Albania ed il suo tessuto sociale) nonché in base al fatto che il cosiddetto ‘‘corridoio balcanico’’ vive un suo proprio momento di crescita della ricchezza – negli ultimi anni il Pil registra mediamente un + 5% annuo, soprattutto grazie alle rimesse degli emigranti – diviene abbastanza evidente un dato:

ossia che il surplus di forza lavoro, che ha causato il forte processo di emigrazione, ha di certo generato negli anni un cambiamento nella struttura sociale albanese; il quale cambiamento, però, è di carattere prettamente socio-economico, ma non certo socio-culturale (giacché non può essere assolutamente sottovalutato sia il notevole grado generale di istruzione della popolazione d’Albania che quello, assai elevato, della popolazione più giovane).

In conclusione, ed in definitiva, a me sembra del tutto stonato ed assolutamente semplicistico il teorema migrante=progresso/ modernità. Anzi, a proposito della ‘‘modernità’’ del pensiero degli albanesi, credo possa esser utile rileggere la piattaforma elaborata dall’Accademia delle Scienze (pubblicata ben diciannove anni or sono) in cui, parlando della sentita e dolorosa questione nazionale degli albanesi in Macedonia, Grecia e Montenegro, già si poteva leggere la seguente considerazione: ‘‘l’Accademia ritiene che l’obiettivo della rinascita della nazione albanese sarà raggiunto progressivamente, portando avanti il processo di integrazione della penisola balcanica all’interno della Comunità Europea’’.

Correva, allora, l’anno 1998 !

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