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Kosovo: il problema del jihadismo

di Edoardo Corradi e Francesco Pagano

Il contrasto al jihadismo e all’estremismo violento islamico è uno dei punti principali nelle agende governative di tutto il mondo, Kosovo compreso. L’evoluzione del fenomeno da scala locale a quella globale ha portato i Balcani sotto la stretta lente d’osservazione dei governi europei, in quanto possibile regione a rischio di radicalismo violento.

I foreign fighter

L’attenzione nei confronti del Kosovo, e dei Balcani in generale, è progressivamente aumentata dal 2005, ed in particolar modo dallo scoppio della guerra civile siriana. I motivi principali risiedono in particolare nell’elevata presenza di popolazione musulmana presente sul territorio, nella posizione strategica ai confini dell’Europa e in un difficile processo di state-building che ha reso semplice aggirare le istituzioni statali. Negli anni le autorità kosovare, coadiuvate da organismi internazionali, hanno intrapreso un rigido controllo delle moschee e varie associazioni religiose, in particolar modo della Comunità islamica del Kosovo (BIK, Bashkësia Islame e Kosovës), con il fine di arginare il fenomeno.

Il fenomeno aveva già interessato la Bosnia ed Erzegovina durante il conflitto tra il 1992 e il 1995. La guerra in Kosovo, invece, non aveva intercettato un elevato numero di foreign fighter. Nel periodo post-bellico le società balcaniche, in particolare quella bosniaca e kosovara, sono state caratterizzate da un progressivo, seppur lento, processo di islamizzazione, che si è contrapposto al classico laicismo balcanico. A favorire tale processo sono stati gli ingenti finanziamenti che sono giunti, e tutt’ora arrivano nella regione, in particolare dall’Arabia Saudita per la costruzione di moschee, scuole religiose (madrasse) e infrastrutture.

I dati relativi al Kosovo

La presenza dunque di numerosi foreign fighter kosovari nel conflitto siriano (parte della stampa considera il Kosovo come il Paese europeo che esporta più foreign fighter pro capite) non stupisce, ma i dati relativi al Kosovo devono essere attentamente analizzati. Secondo il Kosovar Center for Security Studies il numero dei foreign fighter di origine kosovara che si sono recati a combattere tra le fila dello Stato Islamico e di altre organizzazioni terroristiche in Siria come Jabhat al-Nuṣra ammonterebbe a circa 330. Per comprendere meglio il peso reale dei foreign fighter sulla popolazione locale è necessario valutare il dato in base alla percentuale di popolazione musulmana, più facilmente radicalizzabile, e confrontarlo dunque con altri Paesi europei. In questi ultimi il fenomeno è dato da una recente immigrazione in particolare dalle ex colonie, e non è dunque il risultato di una secolare convivenza come nei Balcani.

Rank Paese Foreign fighters % sulla popolazione % sulla pop. musulmana Paese Rank
1 Kosovo 330 0,018 0,055 Belgio 1
2 Regno Unito 850 0,013 0,032 Francia 2
3 Bosnia ed Erzegovina 248 0,007 0,023 Paesi Bassi 3
4 Macedonia 140 0,007 0,021 Regno Unito 4
5 Belgio 478 0,004 0,018 Germania 5
6 Albania 90 0,003 0,018 Kosovo 6
7 Francia 1910 0,002 0,015 Russia 7
8 Russia 3417 0,002 0,007 Bosnia ed Erzegovina 8
9 Germania 915 0,001 0,006 Macedonia 9
10 Paesi Bassi 280 0,001 0,003 Albania 10

 

Confronto tra l’impatto dei foreign fighter nei Balcani e in Europa. La struttura della tabella è tratta da Kursani, S. (2015).. I dati sono tratti da Hackett, C. (2017, 29 novembre) “5 facts about the Muslim population in Europe. Pew Research Center e Barret, R. (2017). Beyond the caliphate. Foreign fighters and the threat of returnees”. The Soufan Group.

Un fenomeno da non sovrastimare, né sottostimare

Il fenomeno, dunque, è nettamente sovrastimato. I famosi campi di addestramento non sono mai stati provati, e le località della Bosnia ed Erzegovina e del Kosovo come Ovše, Gornja Maoča e Kačanik/Kaçanik risultano essere più delle comunità salafite, dove la vita è certamente scandita dall’elemento religioso, ma non delle fucine di terroristi e/o dei campi di reclutamento e addestramento.

Tuttavia, se è vero che sovrastimare il fenomeno è errato, sottovalutarlo è almeno altrettanto pericoloso. Attualmente, il fenomeno del radicalismo islamico violento in Kosovo non è un problema per la sicurezza nazionale e per l’Europa, e la legislazione kosovara in merito lo rende uno dei Paesi che più efficacemente contrasta il fenomeno. Le difficoltà che il Paese sta affrontando nel suo processo di state-building e nel ridurre le disparità sociali ed economiche sono un fattore che in futuro potrebbero amplificare il fenomeno del jihadismo. Il Kosovo è infatti uno dei più giovani Paesi nel mondo, il 53% della popolazione ha meno di 25 anni, e al contempo ha registrato il più alto tasso di disoccupazione giovanile, al 52,4%.

Le difficoltà per i giovani di riuscire a costruire un futuro stabile nel proprio Paese, a causa di un’economia che non riesce a decollare, rende di particolare attrazione la propaganda di alcuni imam, istruiti in Arabia Saudita e inviati nei “nuovi” Paesi musulmani dei Balcani col fine di espandere l’influenza wahabbita nel mondo. Il contrasto del fenomeno, oltre che sui controlli e sulla rigida sorveglianza passa anche su altre politiche, più di lungo termine: quelle che portano alla crescita ed allo sviluppo economico./rivistaeuropae.eu

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