Home Approccio Italo Albanese “I bambini non hanno mai colpe” libro dell’autrice Ismete Selmanaj

“I bambini non hanno mai colpe” libro dell’autrice Ismete Selmanaj

Di Matteo Mandalà, Hora e Arbëreshëvet

Tra gli innumerevoli aspetti distintivi che, per originalità, caratterizzano la loro civiltà, gli albanesi annoverano una tradizione giuridica consuetudinaria che – se non per le sue origini arcaiche, dagli studiosi giudicate tanto remote quanto oscure, di certo per la coerenza logica, per l’intrinseca forza morale e, infine, per la successione di variegate eredità giuridiche stratificatesi nel tempo – suscita, ancora oggi, grande interesse nei ricercatori.

Conservatasi più a lungo nelle regioni del nord dell’Albania, in aree depressedai contrafforti montuosi che formano le Alpi albanesi, la cosiddetta “legge delle montagne” ha attirato l’attenzione di storici, cronisti o semplici viaggiatori sino a quando, un secolo or sono circa, divenne oggetto di studio scientifico di due sacerdoti – l’italiano don Ernesto Cozzi(1870-1926) e il padre francescano kosovaro Stjefen Gjeçov (1874-1929) – il cui rispettivo profondo merito fu quello di non limitarsi a una mera ed estemporanea descrizione, ma di avviare una vera e propria raccolta organica dello straordinario patrimonio di leggi, di norme e di istituzioni consuetudinarie fino ad allora trasmesse per tradizione orale.

Alla fase della raccolta dei materiali – che proseguì ancora grazie all’interessamento di numerosi altri solerti missionari, tra i quali è doveroso ricordare i padri gesuiti della celeberrima “missione volante” fondata da Domenico Pasi, che radunò le relazioni dei suoi confratelli in un volume pubblicato postumo da Giuseppe Valentini con il titolo La legge delle montagne albanesi – seguì la fase della pubblicazione dell’enorme messe di documenti, una fase che si presentava più ardua per il fatto che Gjeçov si era prefisso il difficile compito di ordinare la vasta e complessa materia disseminata in tradizioni variegate e, soprattutto, di dotarla di una codificazione teorico-pratica all’altezza dell’effettiva importanza che esse rivestivano per la vita concreta delle comunità montanare albanesi.

Per oltre un decennio il padre kosovaro si impegnò in questa faticosa ricerca, curando le edizioni dei suoi studi che con regolaritàfurono ospitati nelle colonne di Hylli i dritës, la celebre tribuna francescana di Scutari fondata dal poeta Giorgio Fishta. La serie di studi, interrotta a causa del barbaro assassinio di Gjeçov perpetrato da un nazionalista serbo, rappresentò l’inizio di una nuova stagione della ricerca albanologica.

Quegli studi pionieristici non solo ebbero il merito dievidenziare la straordinaria ricchezza giuridica del cosiddetto Kanun delle montagne, ma lasciarono intravedere chiaramente anche che ben altri profili, oltre a quello giuridico, caratterizzavano quel complesso sistema di regole, di norme e di leggi: tali e tante erano, infatti, le implicazioni di ordine storico, antropologico, sociale e culturale che già allora era agevole prevedere che le suggestioni profuse da quel corpuslegislativo avrebbero immediatamente scosso l’attenzione e la curiosità di legislatori, di studiosi e, come diremo, di scrittori.

Su iniziativa di Giorgio Fishta, il lavoro di Gjeçov venne ripreso mediante la pubblicazione degli scritti inediti in una rubrica di Hylli i dritës denominata “Kanuni i Lekë Dukagjini”. Con questo titolo nel 1933 fu pubblicato il volume che avrebbe definitivamente consacrato la legge consuetudinaria delle montagne albanesi. Un decennio dopo, nel 1942, la traduzione italiana del medesimo volume avrebbe alimentato ulteriormente gli interessi scientifici e moltiplicato gli studi.

In Occidente, dove questo complesso legislativo, già divenuto oggetto dell’analisi del sullodato compianto padre Giuseppe Valentini, tra gli albanologi il più profondo conoscitore della realtà albanese dove il Kanun era esercitato per avervi vissuto da missionario e autore di brillanti e approfondite analisi, ha riscontrato nei giorni nostri l’interesse di numerosi studiosi (patrizia Resta e Donato Martucci) che hanno evidenziato la struttura e la pervasività delle norme kanunarie.

Dall’altro canto, anche in Albania, dove nel 1945 si era instaurato il regime comunista, sono fioriti analisi, studi e pubblicazioni che hanno mirato, per un verso, a descrivere le leggi consuetudinarie e, per un altro, a ostacolarne l’applicazione per favorire, in sua vece, l’attuazione delle leggi dello Stato: aspetto quest’ultimo non secondario a nessun’altro giacché contribuisce a comprendere le evoluzioni degenerative subite dalle norme consuetudinarie. Le ricerche hanno evidenziato che la diffusione della legge consuetudinaria è omogenea in tutto il territorio abitato da genti albanesi.

Da nord a sud, infatti, sono state raccolte versioni che, pur tradendo adeguamenti dovuti alle tradizioni locali, non presentano differenze sostanziali negli istituti giuridici principali che gli studiosi definiscono, per l’appunto, fondamentali e immutabili nel tempo e nello spazio. Il che avvalora l’ipotesi che il Kanun, in periodi storici più remoti e certamente prima di subire inevitabili processi di differenziazione regionale, costituiva un patrimonio comune degli albanesi.

Alcuni di questi istituti, in particolare quelli che costituiscono l’architettura “morale” dell’intero codice consuetudinario, rivelano un’antichità tale che, in taluni aspetti, coinvolge persino la cultura orale custodita nella memoria storica e letteraria delle comunità albanesi d’Italia, le quali – com’è noto – risalgono alla seconda metà del Quattrocento.

Fra tutte è sufficiente menzionare la besa, che in italiano significa “parola data, promessa, giuramento” e che trova un equivalente semanticamente pregnante nel latino fides, non solo per ricavare una prova persuasiva della arcaicità di questi istituti, ma anche per individuare il filo logico che tesse in un unico sistema giuridico le relazioni tra gli altri principi fondamentali del Kanun: la nderja “l’onore”, che costituisce il patrimonio personale che ogni individuo deve salvaguardare anche a costo della propria vita; la burrnija, che in italiano si potrebbe rendere con il termine coniato da Giuseppe Pitrè di “ominità”, benché le peculiarità dell’essere “uomo” nella cultura albanese sono connotate esclusivamente dai valori morali della temperanza, della saggezza, del senso di giustizia del coraggio e, soltanto infine, anche dalla forza fisica; infine la legge che sancisce i principi, per un verso, di eguaglianza tra gli uomini al di là e a prescindere dalle “abilità verso disabilità fisiche” o dalla “ricchezza verso povertà” e, per un altro verso, della libertà di agire in nome del proprio inviolabile diritto di difendere l’onore di se stessi, della propria famiglia, del proprio clan.

Da questi quattro principi generali e, per l’appunto, immutabili e comuni discendono e sono ispirate le norme che formano le tradizioni giuridiche consuetudinarie albanesi. A partire da quelle che regolamentano la vita sociale (fidanzamenti, matrimoni, nascite, eredità, proprietà, confini) a quelle che stabiliscono le procedure per la salvaguardia dell’onore personale (l’ospitalità, ruoli e doveri del padrone di casa e dell’ospite, ruoli e compiti della donna, ecc.), infine a quelle che regolamentano i fatti di sangue e che nella terminologia giuridica kanunaria rientrano nella cosiddetta gjakmarrja, letteralmente “presa del sangue” (da gjak“sangue” e marr“prendere”).

La vendetta di sangue, la cui fenomenologia attraversa il bacino mediterraneo sin dai tempi omerici, è scrupolosamente regolamentata dalla legge della montagna attraverso definizioni giuridiche che non lasciano spazio a interpretazioni soggettive o a deviazioni dai rigorosi protocolli che il Kanun stabilisce con successione logica. Chiamando in causa i principi fondamentali che la ispirano, la gjakmarrja non è, come si potrebbe ritenere erroneamente, un mero regolamento di conti, tanto meno il Kanun è, come banalmente si sarebbe indotti a concludere, un istigatore al delitto di sangue: in nessuno di questi presupposti si riconoscerebbe un montanaro albanese moralmente obbligato dalla besa a ripristinare nderjen, il suo onore, uccidendo colui il quale ha ucciso.

Nella cultura giuridica della legge della montagna, infatti, “la presa del sangue” non si sovrappone meccanicamente, nonostante le somiglianze che questa pratica potrebbe suggerire, all’atto di giustizia sancito dalla legge del taglione, dalla quale anzi differisce sia per la complessa architettura morale che ne sovrasta i principi ispiratori sia per la rigorosa applicazione dei riti che conferiscono alla gjakmarrjacarattere universale e rapida identificazione.

Se per l’uomo albanese ferito nell’onore è un dovere inalienabile togliere la vita a chi ha ucciso un proprio congiunto, è altrettanto doverosamente irrinunciabile riservare un atteggiamento di rispetto nei riguardi della famiglia antagonista: l’atto di giustizia è riconosciuto tale anche da chi subisce la morte, purché l’esecutore agisca sempre e incondizionatamente nel rispetto delle regole fissate dal Kanun.

Non si uccide mai alle spalle; non si spara mai più di una volta; non si abbandona il corpo della vittima, ma lo si ricompone indirizzando il volto verso il cielo; per rispettare l’onore del morto, si assume la cura di riporre il fucile longitudinalmente lungo il cadavere; si incaricano gli eventuali testimoni di avvertire la famiglia della vittima che essa è stata uccisa in nome della gjakmarrjae, contemporaneamente, si inviano mediatori ai famigliari del caduto per sollecitare la concessione della besa “piccola”, la tregua che consentirà all’omicida di prendere parte alle esequie funebri, recandosi nell’abitazione del morto, partecipando alla consumazione del pranzo mortuario e alla successiva sepoltura.

La concessione di questa tregua è manifestazione dell’onore che la comunità riconosce alla famiglia e ai suoi componenti, come la richiesta che la precede è una implicita dichiarazione di rispetto nei confronti di chi ha subito il lutto. Seguirà la concessione dell’altra tregua, che avrà una durata più lunga e che a partire dall’immediatezza della sua scadenza l’omicida rischierà di cadere a sua volta secondo il medesimo rituale applicato alle precedenti vittime.

In ogni singolo atto di questo complesso protocollo, in questa sede ridotto ai suoi aspetti fondamentali, non è difficile scorgere il senso profondo, assoluto e spirituale, con cui gli albanesi, onorando la morte di chi cade vittima della gjakmarrja, si impegnano a rispettare la vita, che non a caso ritengono sacra e inviolabile, anche quando sia risaputo che la vendetta di sangue potrebbe proseguire a lungo nel tempo e potrebbe mietere ulteriori vittime.

E per quanto raramente sia stato applicato il principio commutativo del risarcimento della vittima dato che per la legge consuetudinaria il valore del “sangue” equivale ad una altro “sangue”, non v’è dubbio che, pur ribadendo l’equivalenza macabra dei “sangui”, riflesso del principio di eguaglianza degli individui maschi, il Kanunnon si esime dal rivelare la sua vera funzione, che consiste nel costituirsi in un vero e proprio regolatore dei conflitti, uno strumento giuridico-morale che si impegna a spingere le faide verso una condivisa conclusione, favorendo la besa-besë, la riconciliazione definitiva tra le famiglie coinvolte. Un compito arduo e non sempre coronato di successo, ma pur sempre uno scopo di alto significato umanitario che ha impedito a una comunità di uomini del tutto priva di un’amministrazione della giustizia improntata ai principi che ispirano la civiltà giuridica occidentale, di regredire nella barbarie delle morti indiscriminate.

Non v’è dubbio che le singolari vicende politiche che hanno caratterizzato nei secoli la storia del piccolo e antico popolo balcanico, di indubbie origini indoeuropee, hanno contribuito a decretare una “fortuna” del Kanun più longeva di quella delle altre tradizioni consuetudinarie europee. È il caso di ricordare, al riguardo, che gli albanesi per ultimi hanno guadagnato la propria indipendenza nazionale dall’Impero turco-ottomano e soltanto da un secolo godono di un indubbio elevamento della propria civiltà giuridica, grazie all’applicazione delle leggi di cui si è dotato il giovane Stato a partire dal 1913, anno della sua prima legittima istituzione. In un secolo sono stati compiuti tentativi di ridurre la reale efficacia esecutiva delle norme del Kanun, ormai ridotto a un reperto che esercita effimere suggestioni in alcune remote comunità delle montagne.

Il più radicale dei tentativi di soppiantare le pratiche giuridiche arcaiche preilluministiche in vigore nelle montagne albanesi si è concretizzato nei decenni della dittatura comunista: durante il mezzo secolo che abbraccia gli anni dal 1945 al 1991, il Kanun ha cessato di operare e, con esso, sono state interrotte le faide in corso prima dell’instaurazione del regime di Enver Hoxha. L’effetto che si è avuto è stato devastante: per un verso, nella parte più ampia del Paese si è definitivamente instaurata una cultura giuridica di assoluta derivazione occidentale; per un altro, verso, alcune faide, assopitesi nei decenni precedenti, sono state artatamente risvegliate, dando vita ad antiche vendette di sangue che, nel reiterare il macabro spargimento di sangue, lo effettuano in pieno dispregio delle norme previste dal Kanun: non solo coinvolgendovi soggetti che la gjakmarrja esclude tassativamente dal “conteggio” dei sangui, quali le donne e i giovani maschi non ancora adulti, ma anche nel flagrante dispregio di quelle attenzioni che il diritto, l’antropologia, la cultura custoditi nelle ataviche “consuetudini” dei montanari albanesi considerano sacre: a cominciare dal rispetto incondizionato per la morte e per le vittime.

Si tratta di un processo degenerativo dovuto in parte all’oblio che ormai circonda la civiltà giuridica kanunaria e in parte alla persistente, costante e diametralmente opposta rigenerazione della società albanese, oggi più che mai impegnata a coronare di successo la legittima aspirazione che la pervade da almeno un quarto di secolo: guadagnare quella dimensione europea della quale è parte integrante. Da questo punto di vista la forte denuncia che attraversa il romanzo di Ismete Selmanaj è un sintomo significativo che ravviva la speranza e accentua l’impegno militante dei giovani intellettuali albanesi.

Come sempre accade in letteratura, un’opera d’arte scuote le coscienze in profondità molto più efficacemente di un trattato scientifico e aiuta la comprensione di fenomeni sociali complessi, radicati, spesso superficialmente giudicati. La sfida lanciata dal romanzo colpisce un mondo definitivamente relegato nel passato, un mondo che pur di ritornare in auge, è disposto alla propria corruzione, persino alla propria perversione morale.

La storia narrata ai lettori italiani indaga l’animo dei personaggi, lo perlustra nei suoi recessi più oscuri, scopre risvolti inconfessabili, costringe l’emersione di fatti delittuosi gravi e intollerabili. Per ognuno di essi vi è sempre una motivazione che si vorrebbe risolvere in nome e per conto di leggi ormai desuete, le quali, come ribadisce in modo ricorrente Ismete Selmanaj, nulla hanno più a che vedere con le antiche norme del Kanun.

Matteo Mandalà Hora e Arbëreshëvet

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