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GLI STATUTI DI SCUTARI: UN MONUMENTO ALLA MEMORIA DI ALBANIA

“Statuti di Scutari” e’ un libro eccezionale, una ventata di civiltà europea del tardo Medio evo, un libro di cui leggere ogni giorno un passo da memorizzare per modernità e insegnamento di vita, rispetto per ogni vita umana, rispetto per la donna, ecc ecc. Altro che Kanun, questo libro e’ disponibile in italiano, latino ed e’ tradotto in albanese a cura di Pëllumb Xhufi.

Cari lettori degli “Approcci Italo Albanesi”,

Noi vi proponiamo la introduzione dell’autrice di questo eccellente libro e studi, dottoressa Lucia Nadin che, ringraziandola per il suo lavoro eccellente, vi anticipiamo anche un intervista in esclusiva con lei nei giorni successivi.

In epigrafe

La lettura degli Statuti di Scutari è una occasione istruttiva e avvincente, che apre e illumina uno scenario di civiltà comunale, offre uno spettacolo di strada portando il lettore fin dentro a una città medioevale, della quale fa conoscere il suo assetto urbanistico, le sue strutture artigianali con relativi lessici, i ritmi quotidiani della sua vita politica e sociale, il sistema doganale legato ai suoi traffici tra entroterra e costa.

Non è certo una lettura monotona, al contrario: è una miniera di informazioni, solletica curiosità specie là dove la vita di un tempo trova similitudini con l’oggi, stupisce quando evidenzia basilari comportamenti di vita ancora al nostro presente trascurati, come il rispetto dello spazio pubblico, della sua pulizia, del suo decoro; insegna la stima per la persona, sia che si tratti della donna, che appare incredibilmente tutelata e rispettata e onorata, sia che si tratti di qualsiasi vita umana: le offese e le violenze dovevano essere perseguite con le dovute punizioni, con sanzioni di legge, ma sempre escludendo logiche di faide o di vendette di sangue.

Viene offerta una grande occasione di conoscenza, una grande occasione di dialogo, non solo quello più dotto e specifico tra esperti di diverse discipline, ma – molto concretamente- quello che si può attivare tra testo e singolo lettore.

Un libro che dovrebbe raggiungere ogni casa, perché tratta sì di una Albania medievale cristiana, ma, al di là dei differenti credo, custodisce la memoria del tempo e la memoria del Paese, nelle diverse secolari fasi, è perciò patrimonio di tutti gli Albanesi, da conoscere, rispettare, conservare.

E’ una memoria anche da “offrire” all’ospite straniero che voglia conoscere le radici storiche di Albania. Con “pane e sale” si accoglieva un tempo l’ospite, perpetuando un tradizionale omerico senso dell’ospitalità.

“Pane e sale” è metaforicamente riproposto dal testo degli Statuti di Scutari a chi voglia leggere e sapere di quel tempo antico di Albania, quando, in osmosi tra terra e mare, era componente integrante della civiltà di Europa.

Il ritrovamento del testo e la sua importanza

La prima ufficiale comunicazione del ritrovamento degli Statuti di Scutari, nella copia manoscritta risalente ai primissimi anni del secolo XVI, fu data in una Conferenza Scientifica presso l’Università “Luigj Gurakuqi” di Scutari nel 1997. Quel testo era stato da poco stato ritrovato nella Biblioteca del Museo Correr di Venezia, sotto la segnatura: Manoscritto Cicogna 295: si trattava di una copia trascritta fedelmente, parola per parola è detto dal copista, da un originale oggi perduto.

La pubblicazione del testo avveniva nel 2002, dopo cinque anni di analisi e di studio, con il contributo di storici e di linguisti, con traduzione in lingua albanese; il patrocinio ad essa dato allora dalla Presidenza della Repubblica italiana e dalla Presidenza della Repubblica albanese volle sottolineare l’importanza eccezionale che quel testo ricopriva nella storia politica, sociale, culturale del Medioevo adriatico e mediterraneo.

A quando risale la raccolta statutaria? Non è dato con precisione di sapere; è certo che essa precede nel tempo il codice di leggi Zakonik che fu promosso da Stefan Dus’an solo dopo tre anni che egli assunse il titolo imperiale nel 1346; nel testo scutarino si parla di sempre di Misser lo re, non di imperatore e dunque l’insieme dei capitoli, nella sua completezza, è antecedente a quella data, mostra di risalire ai primi decenni del secolo XIV, con possibilità anche di retrodatarne prime stesure a inizio secolo.

E a proposito del re, nel testo di Scutari persiste il riferimento all’appartenenza della città al regno serbo che risaliva alla fine del secolo XII, perché, pur all’interno della propria autonomia nell’amministrare la giustizia, si riconoscevano casi specifici in cui il giudizio rimaneva prerogativa della corona: tradimento, omicidio, servitù, cavalli.

Alla stessa raccolta si ispirarono gli Statuti di Budua (posteriori al 1349) e ciò testimonia che essa svolse un ruolo di riferimento di primaria importanza per altre realtà comunali adriatiche che, gravitanti sul mare, dovevano anche condividere consimili principi giuridici.

Non si sa se sia esistita una analoga raccolta statutaria a Durazzo, poiché sono noti solo pochi capitoli: a maggior ragione dunque il testo ritrovato si offre agli studiosi come prezioso campo di indagine nel panorama delle caratteristiche giuridiche delle città costiere del nord Adriatico (Budua e Cattaro per esempio).

Nel secondo Trecento le terre albanesi erano destinate a diventare strategiche di fronte all’avanzata ottomana e Scutari, si sa, divenne “veneziana” nel 1396, a seguito di un accordo con Giorgio II Balsa, pochi anni dopo che un analogo accordo era intervenuto con Carlo Topia per Durazzo.

Venezia, all’atto di assumere il protettorato, si impegnava a rispettare le consuetudini delle comunità e conservare gli statuti là dove erano vigenti e tale principio impartiva a ogni comes et capitaneus, ovvero conte e capitano, che inviava in propria rappresentanza: questi solo in assenza di specifiche norme avrebbe dovuto legiferare supplendo agli eventuali vuoti in base alla propria deontologia. Gli statuti erano dunque il simbolo dell’autonomia cittadina che doveva essere rispettata, gli statuti erano lo strumento di difesa contro l’eventuale e inevitabile trasbordare delle competenze gestite dalla autorità veneziana.

Dura circa un secolo il protettorato di Venezia su Durazzo e Scutari (mentre le resterà nei secoli successivi, pur con alterne vicende, a sud Albania l’avamposto di Butrinto); a causa delle guerre logoranti per la sua economia, Venezia cede Scutari ai Turchi dopo il secondo assedio nel 1479, con l’offerta, a chiunque lo volesse, di lasciare la propria patria di origine per trasferirsi nelle terre veneziane che divenivano patria di adozione. L’esodo, secondo le testimonianze del tempo, di Marino Becichemo (Marin Becich) innanzi tutto, divenuto nel tempo docente all’università di Padova, fu massiccio dall’alta Albania cattolica e continuò nel tempo successivo anche dall’Albania centrale, dopo che Durazzo passò in mano turca nel 1501.

Quell’esodo andò a scrivere una vicenda migratoria nelle terre della Serenissima che fu totalmente diversa da quella avvenuta nel sud Italia, dove si costituirono enclaves albanesi che sopravvissero come tali per secoli: quelle comunità arbëreshe ben note che sono a tutt’oggi fonti di studio e di testimonianze culturali.

Ben altra, va ribadito, fu la storia della emigrazione albanese nel nord d’Italia e nelle terre della Repubblica di Venezia, perché nella realtà sociale, economica e mercantile di una Venezia Metropoli, alla emigrazione seguì un rapido processo di integrazione, una veloce osmosi tra emigrati e cittadini, sotto la direzione di una politica che metabolizzò alla realtà cosmopolita della Regina dell’Adriatico anche la popolazione albanese; la quale d’altronde, e il dato non va trascurato perché recita una sua specificità, lungo tutto il Quattrocento era stata presente nella vita veneziana e non a caso tra le comunità nazionali straniere operanti in città (dalmati, greci, etc) erano stati gli albanesi cattolici i primi a ottenere il permesso di aprire una loro “Scuola”, ovvero Associazione-Confraternita, ufficiosamente agli inizi degli anni quaranta, ufficialmente nel 1448, dove potersi riunire trovando sostegno e protezione reciproci, dove mantenere la propria identità, dove anche la presenza delle donne (nella società tardo medioevale ancora per lo più escluse da molti campi della vita pubblica) era terreno di socializzazione; e dunque con la loro “Scuola” anche gli Albanesi si inserivano nella vita sociale, religiosa, assistenziale della città.

Non stranieri furono nel corso del Quattrocento gli Albanesi a Venezia, ma stranieri di casa, meglio ancora cugini adriatici e alleati fedeli. E fedelissimi furono i tanti religiosi cattolici che vennero strutturati nel clero veneto.

Morto Scanderbeg, passate Scutari e Durazzo ai Turchi, la pace del 1503 apriva a un lungo periodo di pacati rapporti tra le sponde del mare Adriatico. Ma avviarsi a una nuova fase di convivenza con il precedente nemico non fu capitolo facile per i tanti albanesi che erano fuggiti dalle loro terre per trovare nuovi approdi di vita.

Fu iniziativa proprio della comunità albanese rifugiata a Venezia il voler promuovere il ricordo della terra che si era dovuta abbandonare, innanzi tutto confezionando uno splendido esemplare manoscritto in cui trascrivere in bella copia, a futura memoria, tutte le norme statutarie che si era dato il Comune di Scutari quasi due secoli prima.

Era la prima pietra per costruire un monumento al passato glorioso di un paese che, diceva Marin Barleti, la storia sempre altalenante e impietosa aveva travolto.

Ecco dunque spiegate le ragioni di nascita, nel primissimo Cinquecento, di quel preziosissimo manoscritto Correr 295 ancor oggi conservato a Venezia che qui si presenta nella sua veste originaria; preziosissimo per la ricostruzione della storia medioevale di Albania, ma non solo, perché gli Statuti di Scutari – si ribadisce- sono uno dei pochi testi giuridici di realtà cittadine alto adriatiche di età medioevale sopravvissuti e da ciò si può capire la loro enorme importanza.

Riportati alla luce dopo circa sette secoli dalla loro stesura, essi restituiscono all’Albania una inedita conoscenza di un importante segmento della sua storia, fanno emergere il volto di un paese proiettato verso il mare e inserito in quel circuito del Mediterraneo che continuò ad essere, fino alla successiva scoperta di nuove terre, il cuore del mondo conosciuto.

Il tempo e gli scenari della trascrizione degli Statuti

Per meglio comprendere i motivi che indussero alla trascrizione in copia di lusso del testo trecentesco degli Statuti di Scutari, è necessario riprendere e approfondire quanto già anticipato sulla presenza di una comunità albanese a Venezia, nella città nei cui archivi si era conservato il testo originale e in cui fu poi confezionata quella copia.

La comunità albanese a Venezia, si è detto, fin dagli anni quaranta del secolo XV aveva ottenuto di aprire in città una propria “Scuola”, cioè una Associazione di nazionalità, con cui essa, in quanto e perché cattolica, si era andata a integrare molto presto nel sistema sociale e nella vita religiosa della Serenissima. L’inizio del protettorato veneziano sulla cattolica Scutari risaliva a un cinquantennio precedente, al 1396, si ricordi.

Le norme che regolavano la vita della “Scuola” sono ancor oggi conservate a Venezia nel libro intitolato Matricola contenente gli statuti, le regole pratiche, le decisioni, le liste degli Albanesi associati; la Matricola è testimonianza dunque della vita degli Albanesi a Venezia, della loro composizione sociale, della loro attività lavorativa dal secolo XV fino al secolo XVIII (la “Scuola” si chiuse nel 1780).

Nel 1503, dopo decenni di guerra e la fine del protettorato veneziano su Scutari e Durazzo, si conclude la pace tra Venezia e Impero Ottomano e per tale evento iniziano grandi celebrazioni, che vengono promosse dal doge Leonardo Loredan. La famiglia patrizia Loredan, va ricordato, aveva legato il proprio nome agli avvenimenti del primo assedio di Scutari del 1474, quando proprio un Loredan, Antonio, aveva diretto l’eroica resistenza scutarina destinata ad entrare nel mito delle grandi pagine di storia di tutti i tempi. A Venezia nello specifico quell’eroica resistenza aveva dato origine anche a una diffusa letteratura “popolare” che aveva esaltato i combattenti e ne aveva paragonato le azioni eroiche a quelle dei Paladini di Carlo Magno, giungendo a descrivere e anche a trasfigurare letterariamente gli assediati : Ciascun pareva un paladino/tuti coperti di fine armatura!; la piana sotto il Castello di Scutari si sovrappose alla piana di Roncisvalle, inserendo i fatti albanesi in un alveo di antica epica cristiana medioevale.

Le lotte antiturche del popolo albanese, funzionali agli interessi economici e politici di Venezia e di Europa così come ai progetti di recupero della cristianità coltivati dal papato, erano stati dunque presto inseriti nella antologia delle grandi pagine della storia di Europa.

Anche la “Scuola degli Albanesi”, trasferitasi ormai dalla contrada di San Severo e dall’Oratorio di San Gallo a quella di San Maurizio, partecipava a quelle celebrazioni di pace, con lavori all’interno dello stabile in cui risiedeva e in particolare con l’abbellimento della stanza al primo piano dell’edificio, in cui si incontravano i Confratelli e le Consorelle per le loro riunioni; a tal fine venne affidato a Vittore Carpaccio e bottega un ciclo di dipinti raffiguranti episodi della Vita di Maria Vergine; il culto di Maria era diffuso nelle terre dell’Alta Albania come la Madonna del Buon Consiglio insegna.

La prima tela di Carpaccio porta la data del 1504 e la firma del gastaldo (cioè del guardiano/conduttore) della “Scuola degli Albanesi” allora in carica, tale Nicolò Cimador (quella del cimatore era una professione legata al tessile in cui sempre forte fu la presenza di albanesi).

Si faccia attenzione alle date.

Proprio nello stesso 1504 usciva alla stampa il De Obsidione Scodrensi di Marin Barleti, a immortalare le gesta di Scutari contro l’assedio ottomano; editore dell’opera (come peraltro della successiva di Barleti, la Vita di Scanderbeg del 1510) fu Bernardino Vitali, importante editore nella Venezia che era allora già capitale europea della stampa: veneziano sì, ma di famiglia oriunda da Albania ha dimostrato chi scrive.

E appunto sempre in quello stesso 1504 -non c’è data di sottoscrizione del testo, ma a diritto essa va sostenuta proprio entro lo scenario delle celebrazioni di pace (oltre che dall’esame calligrafico) – venivano trascritti in bella copia gli Statuti di Scutari da un originale di archivio oggi perduto, proprio in ricordo di quello che era stato il glorioso passato della città di Scutari, nonché la sua alleanza con Venezia: uno stemma acquerellato in testa agli Statuti doveva, a vivaci colori, recitare la grande storia, più antica, e la rovinosa storia, più recente.

Uno stemma di alleanza, si diceva: lo scudo troncato mostra nel primo un’aquila bicipite coronata d’oro su fondo azzurro, nel secondo tre rose d’azzurro a cinque petali su fondo d’oro; l’aquila bicipite coronata d’oro richiama, si crede, per parte scutarina l’emblema imperiale di Bisanzio, le tre rose rinviano all’emblema della casa patrizia Loredan e del doge allora in carica. Una immagine carica di significati allusivi, confezionata in un ambiente di alta cultura, forse in quella università di Padova, che era faro di conoscenza e di trasmissione del sapere.

Dunque nel tempo delle celebrazioni veneziane di pace con i Turchi la comunità albanese trasferita a Venezia vuole espressamente mantenere la memoria del ruolo svolto dal proprio Paese nei drammatici avvenimenti del secolo precedente; di Scutari in particolare si vuole fissare la grandezza del suo passato e l’eroismo con cui aveva difeso se stessa insieme agli interessi di Venezia e della Cristianità. Marin Barleti lo scriveva in maniera esplicita quando, raccontando l’eroica resistenza della città di Scutari, disse di voler costruire un “monumento” alla memoria, per consacrare nei secoli, attraverso il suo scritto, il ricordo della passata grande civiltà.

Anche la trascrizione in bella copia del testo degli Statuti di Scutari doveva costituire un Monumento alla memoria, perché appunto un monumento (un edificio, una statua, una galleria, un’opera scritta) serve a onorare la memoria o dei Grandi o delle Grandi Pagine della storia: le opere di Barleti, così come la trascrizione degli Statuti di Scutari, così come la pittura di Carpaccio in ricordo della Cristianità albanese dovevano essere il Monumento che la comunità dei cittadini di Scutari trasferitisi a Venezia costruiva per mantenere viva la storia della Patria che aveva dovuto abbandonare.

Monumento deriva etimologicamente dal verbo latino monere, che vuol dire ricordare, ma anche persuadere, stimolare a, indurre a; con la trascrizione degli

Statuti di Scutari, si attuava il fine di conservare e onorare il passato e insieme si trasmetteva il monito a non dimenticare.

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