Home Approccio Italo Albanese «Qui come in guerra, nulla sarà come prima», parla rianimatrice barese in...

«Qui come in guerra, nulla sarà come prima», parla rianimatrice barese in servizio a Bergamo

 Di RITA SCHENA

Ha studiato tra Molfetta e Bari: «È come se fosse scoppiata una bomba»

England Hila è una giovanissima anestesista di origine albanese che lavora all’ospedale di Bergamo. La sua è una testimonianza dal fronte, da uno dei presidi più sotto pressione per l’emergenza coronavirus. E’ arrivata a gennaio per completare il tirocinio, dopo aver studiato tra Molfetta e Bari.

Dottoressa quale è la situazione all’ospedale Giovanni XXIII di Bergamo?

«Come se fossimo in guerra. Il primo paziente è arrivato in reparto il 24 febbraio e da allora è come fosse esplosa una bomba. Questo ospedale è un’eccellenza e qui ho visto fare cose che mai avrei immaginato possibili. Per riuscire a sostenere il flusso di malati, la terapia intensiva aumentava i posti letto a nove alla volta, prima ogni due giorni, poi ogni giorno. Ora abbiamo a disposizione 80 posti in terapia intensiva e 15 in sub intensiva. Una specie di miracolo, vi assicuro. Ho visto mettere su interi reparti in una sola domenica notte. Una sera al Pronto soccorso abbiamo avuto 90 pazienti in contemporanea e siamo stati tutti richiamati al lavoro, senza che nessuno venisse meno. Ogni medico è abituato fisicamente e psicologicamente a ritmi di lavoro duro, ma qui è una guerra».

Cosa significa avere ogni giorno contatto con la morte?
«Significa star male, molto male. Ogni medico fa i conti con la morte, è il nostro lavoro, ma il peso psicologico a cui siamo sottoposti è molto pesante. Questa emergenza sanitaria ci rende tutti più soli, i pazienti, le famiglie, noi stessi. I malati muoiono soli. Comunichiamo con le famiglie solo via telefono. Immaginate che vi arrivi una telefonata da un perfetto sconosciuto, che vi dice di un vostro caro, che magari vi dà brutte notizie, è uno strazio per il medico e un dolore lacerante doppio per il parente che è solo. Siamo persone, i nostri pazienti diventano parte di noi, asciughiamo loro il sudore, cerchiamo di farli soffrire il meno possibile. Un parente non sa e non può sapere tutto l’amore e lo sforzo che mettiamo nel curare ogni singolo malato. In più anche noi siamo soli: a fine turno non possiamo tornare dalle nostre famiglie per non esporre nessuno al contagio. Ci sono colleghi che vedono la famiglia solo via whatsapp. Quando arrivavano i primi malati qualcuno diceva: “tanto solo vecchi, erano già malati”. Ma cosa significa? Erano nonni o genitori di di qualcuno. Lo strazio è uguale. Ricoveriamo tanti giovani e senza patologie: può succedere a tutti».

La voce della dottoressa Hila freme per l’emozione, è travolta dalla commozione.

«I miei genitori vivono a Molfetta. Quando raccontavo loro cosa stava succedendo l’ho fatto anche perché capissero il pericolo. Non è stato facile al Sud rendersi conto, i miei genitori per primi pensavano esagerassi. Ci siete arrivati con un paio di settimane di ritardo rispetto a quello che stavamo vivendo in Lombardia».

Ora sono iniziati anche i trasferimenti, qui a Bari abbiamo accolto tre malati che arrivavano da Bergamo, solo che uno è morto durante il volo.

«Sono orgogliosa di come la rete nazionale della sanità stia resistendo e del fatto che la mia regione si sia messa concretamente a disposizione per darci una mano. Tutti stiamo facendo l’impossibile, anche se comunicare ai familiari al telefono la decisione di trasferire il loro caro a 1.000 chilometri è devastante. Un collega si è trovato nella condizione di dover dire ai familiari che un paziente stava meglio e che per questo veniva trasferito, salvo dopo poche ore comunicare che era morto».

Lei è una giovanissima anestesista, come mai ha scelto questa specializzazione?

«Siamo i primi ad essere chiamati se c’è un’emergenza e il più delle volte gestiamo quella linea sottile tra la vita e la morte. E’ bellissima la sensazione che si prova quando riesci a salvare una vita. Sono arrivata a Molfetta dall’Albania nel marzo del 1991 su un barcone, solo pochi mesi prima dell’arrivo della Vlora a Bari. Eravamo in 140, le uniche donne a bordo io e mia madre. Siamo stati accolti dalla Croce Rossa, sono cresciuta attorniata dai medici, studiare medicina è stata una decisione naturale. Era quello che volevo fare».

In questi giorni pensa mai a casa, a Bari?

«Oggi Bari è il mio pensiero felice. Ripenso al mio lungomare, agli anni dell’Università, i più felici in assoluto. Dopo gli esami andavo sempre in un baretto di fronte alla rotonda, mi manca quella serenità, i tramonti al Ciringhito. Qui attorno ho le montagne, sono bellissime, ma chi ha il mare dentro… è un’altra cosa. Penso ai miei genitori lontani e ho paura. Colleghi che hanno fatto esperienze in Africa mi hanno detto: “dopo nulla più è uguale”.

Penso che sarà così anche dopo questa esperienza. Tutti stiamo tirando fuori una forza incredibile, serve per resistere, ma dopo nulla sarà uguale».

Share: