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Albania: la profezia di Saimir

A Tirana lo conoscono tutti, perché durante il regime riuscì a far captare a miglia di famiglie i segnali tv che arrivavano dall’estero. Ma pagò con torture e detenzione. E per farsi coraggio, cantava Johnny Dorelli

Di  Christian Elia, Osservatorio Balcani

“Durante il mio processo la pubblica accusa, per tre volte, mi ha chiesto se amassi il partito. Per tre volte ho detto di no. Gli ho detto che il partito era come una mela, rossa fuori, ma marcia dentro. Mi ha chiesto chi erano i vermi, gli ho risposto che erano i capi del partito”.

Saimir Maloku è un fiume in piena. Seduto a un tavolino del bar dell’International Hotel di Tirana, mentre tutto attorno la vita non si ferma mai, mentre viene diffusa musica a tutto volume, Saimir vola con i suoi ricordi, con un’energia travolgente, a dispetto dei suoi 74 anni.

Grande Padre è un longterm project nato dall’incontro tra gli sguardi sull’Albania del giornalista Christian Elia e della fotografa Camilla De Maffei. Entrambi impegnati da anni a raccontare un paese vicino e allo stesso tempo troppo lontano nell’immaginario degli italiani, Grande Padre nasce per riflettere su quanto resta degli anni del regime nei comportamenti, nella quotidianità, nella memoria degli albanesi. Nel dicembre del 1990, lentamente, iniziava la fine di un sistema che, dal 1945, aveva pervaso le vite di un popolo intero. Quanto di quei segni, di quegli strati resta ancora oggi nell’Albania che corre veloce – a volte freneticamente – verso un’idea di futuro in continua mutazione? Decine di interviste e reportage sono diventati una collana di fanzine fotografiche, con testo. Ogni fanzine racconta un tema, il primo è MEMORIA. Seguiranno LAVORO, FRONTIERA, CONTROLLO, SIMBOLI. Su OBC Transeuropa riprenderemo una selezione di questo lavoro.

Il suo processo, nel 1976, è stato un evento. Perché, in anni molto feroci, dove il regime albanese cancellò tutte quelle timide aperture che avevano caratterizzato il decennio precedente, quel processo doveva essere un monito a tutta l’Albania. Tutti conoscevano Saimir, a Tirana, perché era l’uomo delle antenne.

“Si veniva da un periodo, per quello che poteva essere all’epoca, di tolleranza del regime. In particolare negli anni che vanno dal 1968 al 1972, venivano consentite piccole libertà”, racconta Saimir, “uno spazio minimo, ma nel quale tante persone, soprattutto della mia generazione, si erano lasciate un po’ andare. In quegli anni venivano in città i turisti ‘politici’, che il regime accoglieva per mostrar loro come tutto in Albania fosse perfetto. Non era così, ovviamente, ma con quelle persone riuscivamo ad avere contatti. E per noi si apriva un mondo. Alcuni passavano anche da casa mia, alcuni mi regalavano qualche capo di abbigliamento. Ero felice, non avrei mai immaginato che poi tutto sarebbe stato usato contro di me”.

Saimir non era un ‘dissidente’ come gli altri. Saimir era una celebrità, a Tirana, e pensare che tutto era nato quasi per gioco. O per far contento il padre. “Mio padre era un ingegnere, molto rispettato dal regime, come tutta la mia famiglia, che durante la guerra aveva aiutato i partigiani. Papà, laureatosi a Tirana negli anni ’30, già nel ’44 venne assoldato per guidare oltre 600 italiani che, in attesa del rimpatrio, il regime voleva usare per ricostruire alcune infrastrutture distrutte dalla guerra. Subito dopo la liberazione dai nazi-fascisti, fino al ’48, il clima non era così feroce. Mio padre, che parlava benissimo l’italiano, venne messo a coordinare questa squadra e in pochi mesi, lavorando giorno e notte, riuscì con gli italiani a ricostruire 28 ponti. Era un amico del ministro delle Costruzioni dell’epoca, riuscì a proteggere molti italiani, anche alcuni che il regime non voleva più lasciar andare. Lui riuscì a convincerli che potevano essere utili e facendo così ha salvato la vita a molti di loro. Questa opera di ricostruzione rapida ed efficiente gli garantì il rispetto del regime. Al punto che, negli anni Sessanta, gli regalarono una televisione, anche per i suoi successi sportivi, perché era stato anche un campione di tiro a segno. A voi può sembrare una sciocchezza, ma dovete capire che all’epoca, in tutta Tirana, c’erano massimo un centinaio di apparecchi, quasi tutti nelle case e negli uffici dei dirigenti. Casa nostra aveva un giardino, praticamente diventò un cinema collettivo! Venivano tutti da noi. La programmazione era quella che era: dalle 18 alle 22, un documentario, un programma per bambini, un film sui partigiani, qualche partita di calcio e i notiziari. Noi avevamo fame del mondo, riuscivamo a volte a prendere il segnale dalla Grecia, dall’Italia, dalla Jugoslavia, ma dall’Hotel Dajti a Tirana i servizi di sicurezza disturbavano i segnali. Nel 1968 mio padre restò paralizzato, mi chiese di mettere a frutto i miei studi da ingegnere informatico e io mi misi a studiare”.

Saimir riesce a ridere sempre, sia quando racconta aneddoti divertenti sia quando racconta il suo calvario. “Nella biblioteca della città studiai tutto quello che trovavo su frequenze e trasmissioni, su come potenziare un segnale. E alla fine, dopo qualche esperimento, riuscì a creare un piccolo apparecchio che riusciva a convertire il segnale VHF in UHF. Nel 1970, a mezzanotte, feci la prima prova e vedevo che il segnale arrivava. Che gioia! Ecco, così è nato il mio marchio di fabbrica: alcuni lo chiamavano ‘grup’, ma a livello popolare tutti lo chiamavano ‘kanoçe’, la lattina, perché ricordava una scatoletta di sardine! Ma funzionava perfettamente”, racconta fiero Saimir. “Si facevano le ore piccole, le trasmissioni italiane, con Pippo Baudo e Mike Buongiorno, la musica italiana, Celentano, Peppino Di Capri e Mina, ma anche Fats Domino e i Rolling Stones. E lo sport, ricordo ancora il primo incontro tra Frazier e Mohamed Alì! Ho saputo come erano andati gli altri due solo dopo la mia liberazione. La musica era una passione, in particolare quella italiana: dovete pensare che Radio Tirana trasmetteva solo canzoni partigiane o vecchie canzoni del folklore albanese, comunque modificate per celebrare il regime”.

uno dei pochi busti di Enver Hoxa sopravvissuti alla feroce distruzione dei simboli del regime. Oggi é abbandonato in uno spiazzo dietro alla Galleria di arte moderna di Tirana - Camilla de Maffei

Uno dei pochi busti di Enver Hoxa sopravvissuti alla feroce
distruzione dei simboli del regime. Oggi é abbandonato in
uno spiazzo dietro alla Galleria di arte moderna di Tirana
foto- Camilla de Maffei

Saimir è contento, tutti gli chiedono i suoi apparecchi modificati, in casa è un via vai di spettatori. Continua a migliorare il suo congegno, mentre a Durazzo comincia la produzione autarchica di televisori, sempre più persone la prendono e chiedono il suo congegno. “Ci eravamo rilassati, lo ammetto. Ci vestivamo alla ‘moda’, parlavamo di musica, da casa nostra la gente andava via a notte fonda, e anche figli di esponenti del regime partecipavano. Non mi aspettavo che tutto cambiasse così in fretta, ma accadde. La prima volta che tentarono di arrestarmi fu nel 1973, ma venni salvato dall’amicizia di mio padre con l’allora ministro degli Interni, Balloku. Quando cadde in disgrazia pure lui, e venne fucilato, nessuno poteva salvarmi. Mi arrestarono nel 1976 e iniziò il mio inferno”.

Le persone che passano, al bar, lo riconoscono, lo salutano. Saimir non sfugge alla celebrità, un po’ vanesio come allora, ma almeno oggi nessuno può trascinarlo davanti a un processo pubblico. “Nel primo anno di detenzione ho fatto più di 200 giorni d’isolamento. Un triste record. Perquisirono casa mia, bruciarono tutti i libri che avevo in casa, compresa la Bibbia. Tutto venne usato contro di me: la musica che avevo come i vestiti, molti dei quali mi erano stati regalati dai turisti che lo stesso regime invitava. Il mio primo processo avvenne davanti a oltre 2mila persone. Mi accusavano di essere ‘pericoloso come la peste’, di aver infettato con il male dell’Occidente i giovani albanesi. E di spionaggio. Per questo decisi di dire certe cose, di insultarli, non per ammettere la mia colpevolezza per l’accusa di ‘agitazione e propaganda’, ma per salvarmi dall’accusa di spionaggio. Perché quella significava morte. In isolamento, nel carcere di Burrell, mi picchiavano la notte per farmi confessare. Ma non l’ho fatto, ho perso i denti e ho perso trenta chili, ma ho tenuto duro. E solo grazie a quello che sono ancora qua. Al processo mi sputavano, mi prendevano a calci, mi lanciavano di tutto. Io dissi pubblicamente che sarebbe venuto un giorno che sarebbero caduti come Stalin, fu una profezia. E in isolamento, per farmi coraggio, cantavo L’Immensità di Johnny Dorelli. La mia canzone preferita”.

Uno dei famosi kanoçe costruiti da Saimir - Camilla de Maffei

Uno dei famosi kanoçe costruiti da Saimir
foto – Camilla de Maffei

Saimir resta in carcere per nove lunghi anni. Viene rilasciato proprio nel 1985. “Ero uscito dal carcere da tre mesi quando è morto Enver Hoxha. Mi trovavo nell’ufficio dove lavorava la donna che ho poi sposato, mi sono messo a urlare dalla gioia, con altri due ex prigionieri politici, ci siamo andati a ubriacare. Era pericoloso, lo sapevo, ma non avevo più paura di loro e io e mia mamma, a casa, ballavamo musica tradizionale albanese. I vicini ci guardavano male, ma per paura, non perché la pensassero diversamente da noi. Mio padre, sulla sua carrozzina, piangeva di gioia. Non ero arrabbiato con chi piangeva il dittatore, li capivo, li avevano convinti che Hoxha era Dio e loro si sentivano orfani, terrorizzati da un futuro che non erano più in grado di sognare”.

Il regime è ormai al capolinea e la profezia di Saimir si compie in piazza Skandenberg, il 20 febbraio 1991. “Ero già diventato presidente degli ex internati, scendemmo in piazza, per chiedere le elezioni e il pluralismo politico. C’era un corteo, con uno striscione fatto in casa, che recitava LIBERTA’ E DEMOCRAZIA. Molti volevano andare verso il quartiere del potere, il Blloku, ma li convinsi ad andare verso la piazza. E tirammo giù la statua del dittatore. Fui tra i primi a saltare su quella statua, mi sembra di essere ancora là, a volte. La mia profezia si era compiuta”.

Oggi Saimir è un nonno allegro e dinamico, che ama farsi intervistare per raccontare la sua storia e mostrare i suoi aggeggi, che conserva con amore. Non guarda indietro, ma solo avanti. Con due rimpianti. “Mi sarebbe piaciuto veder puniti molti dei miei carcerieri, ma non è capitato. Una volta ho incontrato uno dei membri dell’accusa del mio processo sul bus. L’ho affrontato, gli ho chiesto se non si vergognasse. Mi ha chiesto scusa, mi ha detto che eseguiva solo gli ordini. Gli ho detto che era quello che dicevano i nazisti che loro sostenevano di aver combattuto. E l’altro grande rimpianto, se non riesco a farlo prima di morire, è quello di non aver mai incontrato Johnny Dorelli. Vorrei stringergli la mano, ringraziarlo, perché lui non saprà mai quanta compagnia mi ha fatto in quella cella buia”.

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