Home Approccio Italo Albanese Nel bicentenario della nascita di Dostoevskij. Lo scrittore tra il sottosuolo e...

Nel bicentenario della nascita di Dostoevskij. Lo scrittore tra il sottosuolo e i demoni raccontò il destino degli uomini

di Pierfranco Bruni

200 anni fa nasceva, 11 novembre 1821, Fëdor Michajlovič Dostoevskij. Uno scrittore che trasformato il senso del dramma in tragico. Lo scrittore che ha costruito e profetizzato il dialogo con i “demoni” che vivono nella civiltà moderna.

Lo scrittore che dentro la cristianità ha vissuto il “delitto” e il “castigo”. Fa parte di quella famiglia di scrittori che hanno conosciuto il “sottosuolo”. La vita si vive consumandola tra il pensiero e la vacuità. Una tristezza che accoglie le malinconie di una letteratura che si apre ad una distinzione del dolore. Vita e letteratura sono un intreccio. Non un incontro. Il dolore si “maschera”, a volte, nel senso dell’inquieto e trova la sua possibilità di esistere nella necessità del tragico.

La letteratura del tragico è quella che supera la solitudine come dolore e vive l’agonia terribile dell’angoscia. Una famiglia di scrittori terribilmente tragici. Da Aleksandr Puskin (1799 – 1837) a Luigi Pirandello (1867 – 1936), da Fëdor Michajlovič Dostoevskij (1821 – 1881) a Gabriele D’Annunzio (1863 – 1938). Il tutto nell’immensità di una metafisica della consapevolezza del vivere con Søren Aabye Kierkegaard (1813 – 1855).

Qual è la scommessa tragica tra questi scrittori di generazioni diverse? Puskin è un giocoliere della vita che ha accettato le sfide fino a morirne, (muore a causa delle ferite in duello con il presunto amante della moglie), e integrarsi nella morte come, appunto, gioco. Pirandello, forse il più temerario, ha inciso nello sdoppiamento dell’io i suoi tanti personaggi che poi conducono ad uno solo che è quello di uno – nessuno.

Dostoevskij si è cercato penetrando la memoria, ma ha compreso che per capirla occorre scavare nel sottosuolo. D’Annunzio ha usato terribilmente l’alchimia dell’estetica per uscire fuori da una cabala che ha il velo del tragico. Kierkegaard ha formalizzato la malattia dell’anima come senso del mortale nel tempo dell’uomo, pur percorrendo un viaggio completamente religioso e spirituale.

Il tragico come memoria mai persa in Fëdor Michajlovič Dostoevskij. Il problema è proprio qui, ovvero nella circonferenza che questi scrittori e filosofi enucleano. La memoria non è una maschera. Pirandello ha cercato di farla diventare tale ma ha corso il rischio di lasciarsi catturare dall’irrequieto pianto del “gorgo muto”. Perché nel gorgo muto c’è l’assenza dell’amore. Perdere la memoria è perdersi. “L’inferno è la sofferenza di non poter più amare” (Dostoevskij). Abbiamo bisogno sempre di memoria. Questo è il punto nodale intorno al quale si completano questi personaggi. Ma la memoria ci libera e ci condanna.

I personaggi di Pirandello vivono e soffrono questa condanna come quelli di D’Annunzio e dello stesso Dostoevskij. Kierkegaard dirà:

“L’angoscia è la vertigine della libertà”. Angoscia, vertigine e libertà. Tre concetti chiave per definire il viaggio inquieto di esistenze consacrate alla “recita” della letteratura o meglio alla “teatralità” dello scrivere. Recita e teatralità! Lo scrittore, il filosofo, il pensatore non possono fare a meno di viversi dentro queste due “impalcature”. Lo scrittore è sempre il personaggio di se stesso. Si pensi a Puskin, il quale ha molte condivisioni propriamente letterarie con Pirandello, al suo vissuto.

Fëdor Michajlovič Dostoevskij: “Ogni uomo ha dei ricordi che racconterebbe solo agli amici. Ha anche cose nella mente che non rivelerebbe neanche agli amici, ma solo a se stesso, e in segreto. Ma ci sono altre cose che un uomo ha paura di rivelare persino a se stesso, e ogni uomo perbene ha un certo numero di cose del genere accantonate nella mente (…). “Io amo l’umanità, ma con mia grande sorpresa, quanto più amo l’umanità in generale, tanto meno mi ispirano le persone in particolare”.

Puskin era convinto che “Gli uomini giudicheranno le tue parole, le tue azioni; le tue intenzioni le vede solo Dio”. Si entra dalla porta della memoria per sottoporsi al senso di infinito e dell’enigmaticità d’esistere. Pirandello: “Ciascuno si racconcia la maschera come può – la maschera esteriore. Perché dentro poi c’è l’altra, che spesso non s’accorda con quella di fuori. E niente è vero!”. L’immensità della melanconia è la costante di un volto che ha davanti uno specchio ma dietro lo specchio, o dentro, cosa si nasconde? D’Annunzio: “La nostra vita è un’opera magica, che sfugge al riflesso della ragione e tanto più è ricca quanto più se ne allontana, attuata per occulto e spesso contro l’ordine delle leggi apparenti”. Così, allora, la vita si vive consumandola tra la passione del morire e la passione irreverente del viverla.

Dostoevskij è nel Grande Inquisitore. O è piuttosto lui stesso il Grande Inquisitore che vuole penetrare il sottosuolo dell’anima.

Share: