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BALCANI: La reazione all’aggressione in Ucraina. Quali rischi?

Di Pietro Aleotti, East Journal

Nei Balcani l’aggressione all’Ucraina è stata unanimemente condannata. Ma con qualche distinguo e più di un timore

Gli eventi drammatici che stanno sconvolgendo l’Ucraina hanno suscitato, come naturale, un’ondata di reazioni internazionali e la quasi unanime condanna dell’aggressione russa, seppure con toni e modalità diverse – quella piuttosto sfumata della Cina, ad esempio – e qualche significativa eccezione – ovvia quella delle ex-repubbliche sovietiche centro-asiatiche (col distinguo del Kazakhstan che si è detto neutrale) e quella del presidente brasiliano Jair Bolsonaro.

Sfumature e gradazioni che si sono palesate anche, a scala regionale, nei Balcani, congruentemente alla differente situazione delle relazioni bilaterali esistenti – storicamente molto intense quelle con Serbia e Montenegro, molto meno quelle con gli altri – e al diverso contesto e alle dinamiche tutte interne ai singoli paesi.

Le reazioni di condanna

Una disapprovazione incondizionata è arrivata dai paesi collocati su posizioni francamente filo-occidentali come l’Albania e la Macedonia del Nord, entrambi impegnati nell’estenuate percorso di adesione all’Unione europea – e quindi anche poco inclini a inopportuni distinguo – ed entrambi membri della NATO (Macedonia del Nord che si è anche detta disponibile a partecipare ad un’eventuale missione NATO). In Albania la condanna è stata espressa trasversalmente da tutto il fronte politico senza eccezioni – nel paese non agisce alcun gruppo politico dichiaratamente filorusso – mentre in Macedonia del Nord la vicenda ha provocato più di qualche imbarazzo al leader del partito d’opposizione VMRO-DPMNE, Hristijan Mickoski, che ha velleità di governo ma che ultimamente si è mostrato più vicino a Mosca che a Bruxelles.

Una situazione simile a quella registrata in Croazia dove alle dichiarazioni di biasimo del presidente della repubblica, Zoran Milanovic, e alla sua promessa che “la Croazia come membro della Nato si comporterà in questa crisi nell’ambito degli impegni presi” – asserzione che si rimangia quanto egli stesso aveva tuonato solo pochi giorni prima dell’invasione – hanno fatto da contraltare quelle di segno opposto arrivate dai leader della destra radicale croata volte all’esaltazione di Putin “il duro” che tanto piace da quelle parti.

Di “mossa illegale” ha parlato senza mezze misure l’attuale primo ministro slovenoJanez Jansa, che ha definito “grave violazione del diritto internazionale” il riconoscimento dei territori separatisti in Ucraina.

I possibili rischi per i Balcani

Ma è soprattutto in Kosovo e in Bosnia Erzegovina che la crisi ucraina rischia di riflettersi in modo più pesante. In Kosovo, la presidente della repubblica, Vjosa Osmani, ha accompagnato le proprie parole di solidarietà al popolo ucraino con espressioni di profonda preoccupazione per le possibili ripercussioni interne al proprio paese paventando l’ipotesi che i fatti ucraini possano incoraggiare Belgrado ad appoggiare – anche militarmente – un’escalation nel nord del Kosovo, ovvero in quelle aree a maggioranza serba che da sempre vivono fortissime tensioni separatiste.

Qualcosa di più di una semplice preoccupazione, anzi, stando perlomeno alla nettezza delle dichiarazioni della presidente, secondo cui “la Serbia vuole ottenere nei Balcani occidentali quello che la Russia del presidente Vladimir Putin vuole in Ucraina”. Se, tuttavia, uno scenario militare di questo tipo appare, allo stato, piuttosto improbabile, è altresì vero che il presidente serbo, Aleksandr Vucic, ha (e avrà) gioco facile a far leva su questa retorica nazionalista nel pieno della campagna elettorale per la sua verosimile riconferma alla guida della Serbia. Resta il paradosso che il contesto attuale potrebbe indurre quei paesi che ancora non l’hanno fatto, come Grecia e Spagna, a riconoscere l’indipendenza del Kosovo, così come la possibilità che la Russia usi il riconoscimento del Kosovo come merce di scambio con l’Occidente nelle sue dispute territoriali nello spazio post-sovietico.

Una situazione potenzialmente deflagrante – e per certi versi analoga – è quella che si vive anche in Bosnia Erzegovina, dove negli ultimi mesi si sono registrate pulsioni marcatamente centripete con la recrudescenza delle spinte separatiste esercitate da un Milorad Dodik, membro serbo-bosniaco della presidenza tripartita del paese, sempre più proiettato alla disgregazione della Bosnia Erzegovina e all’agognata riunificazione con la “madrepatria”. Uno scenario di pericolosità non tanto peregrino come dimostrato dall’immediata contromisura dell’Unione europea che ha deciso, proprio in questi giorni, di rafforzare a scopo precauzionale le fila dell’EUFOR – il contingente che su mandato ONU vigila il rispetto dei trattati di Dayton – inviando in Bosnia altri cinquecento militari, visto che “il deterioramento della situazione della sicurezza a livello internazionale ha il potenziale per diffondere l’instabilità in Bosnia ed Erzegovina”.

E’ con ogni probabilità in questo contesto che devono essere inserite le accuse mosse nell’immediata vigilia dell’invasione dal ministro degli esteri russo, Sergei Lavarov, proprio a Kosovo e Bosnia (oltre che all’altro paese a maggioranza musulmana dell’area, l’Albania) di aver inviato in Ucraina diverse migliaia di mercenari per combattere a fianco dell’esercito ucraino. Accuse che, oltre ad essere state sdegnosamente smentite da tutti i governi interessati e a non trovar alcun riscontro “neutrale”, fanno parte di quella strategia finalizzata a destabilizzare l’intera area e a buttare fumo negli occhi.

La difficile posizione di Vucic

Se in Montenegro il primo ministro uscente, Zdravo Krivokapic, deve fare i conti col fatto che il principale partito della sua (ormai ex) alleanza di governo è il movimento filo-serbo, Fronte Democratico, e con l’attivismo di comodo del suo principale oppositore, il redivivo Milo Djukanovic – pronto a dare il suo “sostegno” all’Ucraina – è comunque quella di Vucic la poltrona senza dubbio più scomoda in questa fase.

Costretto a trovare l’equilibrio impossibile tra la pluriennale ambizione d’ingresso nella UE – univocamente ferma nella sua posizione di condanna a Putin – e la necessità di non “dispiacere” troppo al fondamentale alleato russo, il presidente serbo ha atteso giorni prima di far sentire la propria voce, dopo ore di fortissime pressioni. A valle di una riunione del Consiglio per la sicurezza nazionale di venerdì scorso, Vucic ha così dato prova di cerchiobottismo – dichiaratamente consapevole che avrebbe scontentato un po’ tutti – dicendosi “favorevole alla pace e al rispetto della legge internazionale e all’integrità territoriale dell’Ucraina” ma anche avverso alle sanzioni alla Russia in quanto “contrarie agli interessi nazionali”.

Una sorta di improbabile neutralità ma anche una posizione insostenibile nel medio periodo viste le dichiarazioni del portavoce della commissione europea, Peter Stano, e quel suo attendersi che “la Serbia, come paese candidato, si allinei alle decisioni dell’UE in materia di politica estera e di sicurezza” e che, nella fattispecie, approvi “l’imposizione delle sanzioni alla Russia”.

Una situazione resa ancora più scomoda dal fuoco di fila dei media serbi che hanno accolto entusiasticamente l’avanzata russa con titoli trionfali come quello dell’Informer: “La Russia ha raggiunto Kiev in un giorno”. Un paradosso visto che la gran parte dei media serbi è apertamente filo-governativa e che è stato Vucic stesso ad aver alimentato negli anni questa narrazione filo-russa per tornaconto interno e per ragioni puramente propagandistiche. E che forse oggi legge quei titoli, se non con imbarazzo, quantomeno come un’ulteriore fonte di pressione./East Journal

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