(Ghë Katundë ditë ritignë billjët me jakë thë mirë)
NAPOLI
(di Atanasio Pizzi Architetto Basile)
– I Katundë sono, centri antichi colmi di consuetudini, genio locale esapienza, essi alimentarono, diedero agio e solidità sociale alla regione storica diffusa sostenuta in Arbëreşë:
La storia ne conta più di cento, tutti elevati secondo dinamiche in sintonia armonica delle salutari colline del sud Italia; qui formarono insieme di genio costruito e, assumendo il ruolo di culla d’idioma, credenza e consuetudini, indispensabili all’uguaglianza sociale dei generi che compongono questa popolazione furono preferiti ad altri.
In tutto luoghi di iunctura familiare, colmi di fascino, storia e parlato; tutti fondati, secondo i principi di genio parallelo, fraternamente immersi negli ambiti offerti dalla natura, la stessa che affascinata dalle gesta rispettose di queste genti, li accolse volutamente in ogni dove, senza mai interporre soluzioni di continuità estrema.
Crescere all’interno di un paese arbëreşë e come fare un lungo e benefico sogno, la differenza che distingue i fortunati al risveglio, sono i ricordi che rimangono impresse nella memoria del vissuto in questa parentesi benefica rigenerante.
L’enunciato vuole rendere merito al dato che non basta vivere e crescere in un ambito locale così antico, come i Katundë arbëreşë, per annodare pieghe sufficienti del modello consuetudinario più raffinato del mediterraneo, infatti tutti notoriamente sognano ma pochi ricordano, e sanno fare tesoro di questo ameno viaggio naturale.
Notoriamente ad occuparsi della tutela dei Katundë sono stati filologi, antropologi, storici di età antica medioevale e moderna, i sognatori prediletti di epoche, fatti e cose dei Katundë, peccato che di quei sogni non essendo parlanti, non hanno saputo partecipare e condividere cose con glia attori principali e al risvegli appellarli impropriamente borghi, o
terminare che tutto l’apparato storico di genio di cui sono stati inermi spettatori, si possa risolvere, nell’aver individuato una lingua altra per appellarla Arberia, che è puro astrattismo mentale e neanche principio o fine di un sogno.
Notoriamente l’etnologia è una disciplina che vorrebbe comprendere le singole società, i loro modelli di vita e di pensiero, per poi, mettere a confronto le varie società facendo emergere somiglianze e differenze.
Ma da questo arrivare all’enunciato che le cose del passato, siccome vetuste, non hanno senso e vanno dismesse, è una pena che non ha un termine di decenza.
Se poi il campo lo allarghiamo sull’insegnamento per le nuove generazioni locali parlando e trattando l’argomento come una lingua diversa, perché più moderna o al passo con i tempi, si cade nel campo dell’astratto e precipitiamo in un dirupo nero che non trova memoria in nessun ragionevole sogno.
Infatti non si tratta di offrire solo ed esclusivamente regole, costruzioni e quindi non è solo uno strumento linguistico che non trova una radice plausibile verso chi lo deve apprendere ed applicare.
Vero è che una persona che possiede uno strumento linguistico deve anche poterlo contestualizzare e riconoscere in quello specifico luogo di sogno.
Il dato nasce dal fatto che una lingua e una cultura si influenzano vicendevolmente, perché e lo strumento naturale e sonoro usato da un popolo per rappresentare se stesso, quindi dietro c’è una cultura di riverbero locale, che fa da cassa armonica a tale strumento.
Si può anche dire che non esiste o non si parla di cultura senza considerare lo strumento linguistico e viene descritta attraverso quest’ultimo.
Possiamo affermare scientificamente che esiste un binomio lingua-cultura secondo il quale ci sono delle forti relazioni che regolano questi due elementi che si influenzano vicendevolmente, legati in modo inscindibile proprio per la natura del rapporto locale sempre vivo.
Questa breve trattazione vuole sottoporre all’attenzione della numerosa platea di trattatisti storici costumisti, clerici che dicono di aver saputo sognare cose in Arbëreşë.
Perché come sottolineato da principio sopra citato, non tutti al risveglio ricordano e sanno interpretare il vissuto in sogno, a tale scopo e bene ricordare loro che esistono sognatori di pensiero più titolati e meno influenzabili al risveglio in queste culle arbëreşë.
Dove sagge madri, le stesse che storicamente fecero e sostenevano il governo delle donne sapevano, come depositare i figli stanchi e farli addormentare in quelle culle di legno che ondeggiando al ritmo di quelle nenie, cantate con raffinate melodie vocali, aprivano gli scenari di sogno dei bambini buoni, gli stessi che poi adulti lì in quei manufatti, violati dai non sognatori, i quali dopo decenni non vedono e non sentono depositato il cuore dei buoni sognatori.
La mia culla dondolava facilmente e non cigolava, non aveva difetti di sorta era una fortezza aperta dove solo le mani sapienti di una madre del governo delle donne, potevano accedervi con delicatezza e amore verso il figlio, mai nessuno ha violato la culla, anche se non aveva mura ed era sollevata come un Katundë su una collina.
Per questo nessun bambino di buoni sogni, ha mai sognato o pensato di considerare il luogo del sogno, alla pari di un borgo, in quanto lo hanno sempre considerato, come un luogo sacro puro, religioso, come lo sono l’acropoli di Atene per Atena, Partenope con Napoli, o Roma per i due figli adagiati, vicino al fiume dove sognare.
Per concludere e terminare con un forte sogno di credenza va ribadito come ogni Katundë come la “Terre di Sofia” sono luoghi che nascono con un riferimento primo dt credenza e, non sono luoghi atei come lo furono quelli senza sogno, denominati Borgo.
Atanasio Arch. Pizzi Napoli 2024-08-14