Graciela Vega, scrittrice argentina con radici arbëreshe: “Alla nascita in Argentina, le prime parole che ho ascoltato sono state in albanese. Forte la nostra cultura, forte il sangue di Albania. Tornata a San Basile, mi sembrava di essere Ulisse ad Itaca, senza esserci nata!”
di Adela Kolea Albania News.it
Tra l’inizio e il finale del vincolo terreno con mia madre, susseguirono infinità di racconti e discorsi che costruirono, nel mio immaginario da bambina, una patria spirituale dove viaggiavo ogni volta che la realtà mi era avversa.
Graciela, benvenuta su Albania News!
Faccio un preambolo:
L’importanza di questa intervista è multipla, in quanto si intersecano diversi elementi inscindibili, in primis uno come quello di intervistare una scrittrice ed una donna protagonista attiva nel mondo dell’editoria argentina e non solo.
La sua intercultura, le origini miste arbëreshe/albanesi – italiane – argentine, la sua terra natia, Argentina, per cui un misto di nazioni in perfetta sintonia e incarnate nella sua persona – con denominatore comune, le radici ancestrali di Arbëria – fanno spaziare, presumo la curiosità dei nostri lettori italo – albanesi sulla conoscenza tra l’altro, di una conterranea ed una collega del noto scrittore argentino dalle origini arbëreshe, Ernesto Sabato.
-Quindi, lei è arbëreshe per parte di madre.
I suoi nonni e sua madre, quest’ultima all’epoca giovanissima, partono negli anni ’50 da San Basile (CS), Calabria e si stabiliscono a Buenos Aires, che diventa la sua città natale…
In che età ha ben realizzato le sue vere origini miste?
È curioso. Alla nascita, le prime parole che ho ascoltato sono state in albanese. Mia madre e mia nonna mi ricevevano in questa parte del mondo. Già da grande, quasi di mezzo secolo, mia mamma si congedava con le sue ultime parole sempre in albanese.
Tra l’inizio e il finale del vincolo terreno con mia madre, susseguirono infinità di racconti e discorsi che costruirono, nel mio immaginario da bambina, una patria spirituale dove viaggiavo ogni volta che la realtà mi era avversa.
Forse quelle storie di mia mamma sul suo paese natio e le sue usanze si misero tanto forte dentro me che anch’io mi convertii in una immigrante col desiderio di tornare a casa. Cosi forte è la cultura. Cosi forte è il sangue di Albania.
In casa si parlava albanese. Anche davanti altre persone che ci visitavano, o quando uscivamo insieme, mia mamma o mia nonna mi parlavano albanese. Credo che non distinguevo quando mi parlavano nell’una o nell’altra lingua. Era incorporato e mi sembrava normale essere bilingui… Mio padre parlava spagnolo, ma loro continuavano a parlare alternativamente entrambe le lingue incluso in sua presenza.
Ricordo le “petule”. Quanto mi piacevano! E la cucina saporita di mia nonna. I fichi tanto attesi e riguardati sulla pianta. Il peperoncino piccante.
– Lei è una scrittrice.
Come nasce la sua passione per la scrittura e a cosa è dovuta la sua propensione specie alla scrittura delle fiabe come genere letterario che sta applicando di recente?
C’è un’immagine che si filtra come i raggi di sole dalla finestra. Così di eterea si è trasformata nel tempo. Nonostante, sempre cerco di afferrare e mi sfugge. E uno dei pochi ricordi della mia prima infanzia.
Estate. Io mai facevo il riposino pomeridiano e la noia mi rendeva inquieta. Mia mamma lavorava nella macchina da cucire, con quel pedale rumoroso che la portava volando lontano. Chissà cosa pensava lei che si assentava. Io insistevo, chiedevo attenzione. Allora, mamma fermava suoi piedi, poi liberava le mani dalla macchina e cominciava a cercare nelle scatole di cartone affianco al tavolo del taglio. Uno ad uno li disponeva sul pavimento. Erano brandelli di stoffa. Di tante dimensioni e svariati motivi: pois, fioriti, rigati, bianchi, neri, satinati, ruvidi, lisci, scivolosi, leggeri o pesanti. Quello era il momento della ricchezza, dove l’anima diventava succosa di giochi. Le raccoglievo con le braccia facendo da cesta, me ne andavo in un angolo della stanza e cominciavo a creare. Li univo, li legavo, li cucivo. Li davo forma.
Mi quietavo nel piacere di mettere insieme delle forme e darli un significato. A volte facevo indumenti, a volte tende e coperte, e creavo luci e ombre a mio piacimento. Con scarti.
Per vestire le mie bambole avevo bisogno dell’aiuto di madre. Lei dava le rifiniture a ciò che io avevo assemblato. Rifiniture, ho detto. L’infanzia ha quella sfumatura, almeno la mia. Tutto stava per finire, e bisognava imparare a farlo. L’unione degli scarti dava occupazione alle mie mani. Era una pozione per riempire le mie ore vuote.
Di unire scarti di stoffa, per mano di mio padre, sono passata alla scrittura e lettura di parole.
Allora c’era da finire una frase, un messaggio.
Qualcosa che desse testimonianza di quanto sentivo o volevo.
Papà mi insegnava a scrivere lettere, a mia nonna paterna e alla mia amica che vivevano lontano.
Ed è venuto il tempo delle lettere, il genero epistolare mi si istallò tanto forte che il mio pensiero si esprimeva sempre in forma di dialogo. Anche se non li mettevo su carta, scrivevo tutto ciò che facevo e sentivo per un altro.
Forse era un’altra pozione per riempire un vuoto. Poi è arrivato il tempo della scuola e lo spazio si riempì di numeri e lettere. I doveri, li chiamavano. I doveri si imponevano durante l’anno scolastico.
Solo nel periodo delle vacanze riappare nuovamente un vuoto da riempire e si impose la lettura dei romanzi nei pomeriggi d’estate, all’ora del riposino. Da l’una all’altra.
Sorseggiando frammenti di parole che volevo eternare e copiandoli su un taccuino.
Così, da frammenti di lettura e scrittura, come la farfalla che sorseggia da diversi fiori, continuai la mia vita da lettrice e scrittrice.
I finali sono stati pochi perché il piacere era leggere e scrivere a frammenti.
Ecco perché cerco sempre di pulire le cuciture e tagliare i pelucchi. Ha lo scopo di mostrare quello che c’è, quello che c’era e quello che ci sarà, in questo tempo vuoto di assemblaggio della vita darli significato. Da scarti, a frammenti, a tempo frammentato.
Ovviamente il mio genere preferito è il romanzo.
-Al contempo, lei dirige una biblioteca a Buenos Aires.
Per curiosità, tra gli scaffali della sua istituzione, ci sono autori arbëresh/albanesi?
Esistono alcuni libri che molto gentilmente ci hanno donato i nostri amici di San Basile. Ecco i titoli: San Basile – Memorie storiche, San Basilio Craterete, K’shtu a fjasmi na, Veshia e Shёn Vasilit, Lo scintillio dell’oro, e Le capitolazioni del 1510 – Origini di San Basile.
– Ha avuto modo di conoscere da vicino lo scrittore Ernesto Sabato?
L’ho conosciuto soltanto attraverso il suo lavoro, come scrittore e come attivista per i diritti umani. Un grande.
-Nel 2017 lei visita la terra dei suoi avi, San Basile, (Cosenza).
Cosa ha provato in quella visita? Indossare il llambadhor, gli abiti tradizionali arbëreshë, cosa le ha fatto sentire…?
Quando sono arrivata a San Basile, tutto mi sembrava familiare. Mia madre deve essere stata una grande narratrice perché tutto ciò che mi aveva riferito come fosse un racconto, esisteva e stava davanti ai miei occhi. Mi sono sentita come Ulisse ad Itaca senza esserci nata. Tutto è stato splendido, l’accoglienza, gli amici dell’anima, i sapori, i gesti, perfino la messa in greco.
Ho studiato il greco classico con passione quando ero molto giovane e mi sono specializzata in lettere classiche senza sapere che il sangue era il movente. Trovandomi a San Basile tutta la mia vita ha assunto un senso, ho compreso la materia prima con cui si costruisce la passione umana. Indossare l’abito dei miei ancestrali è stato un rituale. Mi riconosco come l’ultimo anello di quelle donne albanesi arrivate in Italia.
-È mai stata in Albania? Se no, rientra ciò nei suoi progetti futuri?
È un sogno tanto ma tanto grande che non oso sognarlo. Dopo questa pandemia molti progetti sono andati all’ordine del miracoloso.
Se esiste un miracolo, un giorno ci sarò.
– Libri nuovi scritti da lei, in procinto di uscire, ci sono al momento?
Sto finendo di scrivere il romanzo. La última línea è un libro di poesia e prosa intitolato De lenguajes.
Scrivo anche alcuni articoli sulla stimolazione della lettura perinatale e sulla letteratura in generale.
IdentitetJeta, është gjuha e rrënjëve e lidhur me zinxhirë
të fjalëve dhe heshtjeve.
Çdo kujtim i padukshëm
ngacmon çdo çast
në jetën përditshëm.
Jeta, të përfshin në gjirin e saj
e lind gjenerata pa pushim.
Unë jam dhe s’jam.
Jam një degë e grave antike që dalin në botë nga unë,
dhe unë i jetoj ato, si të përjetshëm.
Graciela Vega
(Tradotto da Ornela Radovicka)
Identità
La vita è il linguaggio delle radici
è l’anello incatenato
di parole e silenzi.
Ogni ricordo invisibile
sveglia una e un’altra volta
in ogni atto quotidiano.
La vita è
una espressione familiare
un’ eredità che non cessa.
Sono io e non lo sono.
Sono un ramo di ancestrali donne
che emergono al mondo attraverso me
e le vivo così, eterne.
Graciela Vega
(Traducción de Nicola Viceconti y Patricia Gradito)
Biografia di Graciela Vega
Sono la direttrice della Biblioteca del Comune di Almirante Brown, Buenos Aires, Argentina.
Svolgo attività di ricerca, realizzo seminari e scrivo sulla stimolazione perinatale della lettura.
Sono stata redattore speciale della rivista Billiken e caporedattore di Primer Ciclo a Macmillan, Puerto de Palos.
Ho lavorato come redattore esterno per El Barco de Vapor e come redattore di Material Didáctico de Ciencias per Estación Mandioca.
Ho pubblicato libri del secondo ciclo presso Editorial SM.
Ho coordinato il Programma di Lettura dei Libri e delle Case della Cultura della Nazione e da lì la promozione della lettura in famiglia.
Dalla Biblioteca Popolare e Municipale Esteban Adrogué, che attualmente dirigo, ho viaggiato da Bibliomóvil (Biblioteca mobile) incoraggiando la lettura in luoghi non convenzionali: carceri, case, ospedali, tra gli altri.
Ho scritto per bambini e per adulti (manuali, romanzi, racconti, poesie e saggi).
Le mie ultime pubblicazioni: Antiguas (poesie) e La storia di Zelmira (storie per bambini).
Attualmente sto lavorando al mio romanzo The Last Line, che si concentra sull’indagine e l’analisi della comunicazione umana.
*Le risposte della protagonista dell’intervista, Graciela Vega, sono state tradotte dalla versione originale in spagnolo, da Mario Occhinero in lingua italiana.