Scritto da Olivier Dupui
Una proposta di riorganizzazione giuridico-istituzionale dell’Ue, per scongiurare l’hard Brexit, salvare il mercato comune, evitare il collasso della costruzione europea, rilanciare il processo di allargamento e arginare le ambizioni imperiali di Putin. Istituzioni più flessibili per un’Europa più resistente alla sfida nazionalista.
La Camera dei Comuni ha votato con 494 favorevoli e 122 contrari(1) l’autorizzazione ad attivare l’articolo 50, la procedura che dovrebbe portare all’uscita, pura e semplice, “dura”, del Regno Unito dall’Unione europea. A dispetto dell’impressionante risultato del Remain (48,1%), tanto più notevole a fronte di un livello di disinformazione senza precedenti, a dispetto di un capovolgimento dell’opinione pubblica, confermato da numerosi sondaggi, da quando si è tenuto il referendum, l’improbabile accoppiata May-Corbyn trascina verso una lunga discesa agli inferi i britannici e un po’ con loro, checché se ne dica, anche noi, i continentali. Tutto ciò era prevedibile e previsto(2).
Nel frattempo…
Nel frattempo i “27” si impuntano sulla posizione secondo la quale questa decisione riguarderebbe i soli britannici e converrebbe prenderne atto. L’unico obbligo in capo ai “27” sarebbe quello di salvaguardare la coesione di quanti rimangono nell’Unione.
Devono essersi persi qualcosa. Per ben sette volte nel corso degli ultimi 25 anni l’Unione, le sue istituzioni e i suoi stati membri sono stati in grado di trovare soluzioni o di passare oltre – dipende dal punto di vista – dinanzi ai risultati negativi di un referendum in uno dei Paesi membri. Fu così nel 1992 con la Danimarca, nel 2001 con l’Irlanda, nel 2003 con la Svezia, nel 2005 con la Francia (55% contrari) ed i Paesi Bassi (61,5% contrari), nel 2008 ancora con l’Irlanda, nel 2016 nuovamente con i Paesi Bassi.
Probabilmente deve essere loro sfuggito anche il carattere consultivo del referendum britannico, così come l’estrema leggerezza nell’utilizzo dello strumento referendario da parte di Cameron. I continentali possono certo trovare soddisfazione nella triste situazione che vivono i nostri amici britannici. Alcuni non fanno neanche mistero di rallegrarsene, anticipando con diletto autentico i benefici che si aspettano dal divorzio: ridimensionamento della City a beneficio dell’una o dell’altra metropoli continentale, estromissione della lingua di Shakespeare dalle istituzioni europee se non addirittura il puro e semplice piacere di rendere pan per focaccia alla perfida Albione. Altri, apparentemente in buona fede, si rallegrano della fine di una supposta ipoteca britannica su qualsiasi prospettiva di sviluppo della costruzione europea. Così facendo, tacciono la responsabilità che anche da questa parte della Manica portiamo per l’insostenibile status quo attuale, dimenticano l’importante contributo del Regno Unito alla creazione del mercato unico e all’allargamento dell’Unione e, in particolare, a ciò che ne è derivato in termini di stabilità del continente europeo, per quanto fragile e relativa questa stabilità sia, di fronte ai violenti colpi d’ariete assestati con metodo e costanza da una quindicina di anni dal regime russo, moderna e temibile antitesi dello stato di diritto e della democrazia su cui si fondano l’Unione e i suoi stati membri.
Il fantasma della coesione dei 27
Benché il riflesso dei 27 di affermare la loro unità davanti alla decisione britannica, di resistere al rischio di contagio e di tentare di preservare la coesione dell’Unione o addirittura la sua sopravvivenza sia comprensibile, è per ciò stesso efficace? Secondo noi no. Un’Unione europea senza il Regno Unito sarebbe, molto semplicemente, orfana. In primo luogo perché, come abbiamo detto, il contributo del Paese precursore dello stato di diritto e della democrazia in Europa rimane fondamentale. Ma anche perché, allo stato attuale, altri Paesi dell’Unione condividono con la Gran Bretagna una visione della costruzione europea che non è quella dei Paesi fondatori e di una parte di quelli che li hanno raggiunti in seguito, quella di “un’Unione sempre più stretta”. Basta pensare all’Ungheria dell’ultraconservatore Victor Orban, alla Repubblica ceca del socialdemocratico Miloš Zeman, alla Polonia dell’ultraconservatore Jarosław Kaczyński, alla Romania del socialdemocratico Sorin Grindeanu, per limitarsi agli esempi più clamorosi.
La realtà troppo a lungo rimossa è questa: il tasso di eterogeneità delle posizioni dei 28 rispetto alla costruzione europea è oggi tale che la sua presa in considerazione diventa imperativa. Occorre riorganizzare l’Unione al fine di trovarvi risposta: a Malta, poco tempo fa, i Capi di Stato e di governo dei 27 sembra abbiano finito per convenire su questa esigenza.
Unità e diversità
Se questa osservazione è esatta, due opzioni sono possibili: o gli stati membri che non condividono l’ambizione dei padri fondatori lasciano l’Unione (è la Brexit e, dopo di essa, altre exit possibili), o l’insieme degli stati membri decide di salvaguardare l’Unione, organizzandone istituzionalmente la diversità nell’unità.
In realtà, non esiste un’alternativa credibile ad una revisione politica ed istituzionale che consenta di far coesistere unità e diversità. Si tratta in effetti della conditio sine qua non della fiducia tra le diverse parti, senza la quale l’Europa finirebbe immancabilmente per implodere, se non per ritornare ai suoi antichi demoni guerrieri.
La questione, complessa senza alcun dubbio, è quindi quella di articolare due appartenenze, quella all’Unione delle quattro libertà e quella a ciò che chiameremo, con Alain Lamassoure, la Comunità(3), sempre più stretta, all’interno di istituzioni comuni a entrambe le realtà istituzionali: la Commissione, il Consiglio, il Consiglio europeo, il Parlamento europeo e la Corte di Giustizia.
Per il Consiglio (dei Ministri) ed il Parlamento europeo, ciò presupporrebbe due agende separate e diritti di voto e di partecipazione ai lavori distinti in funzione dell’appartenenza all’Unione o alla Comunità. Per la Commissione europea, si tratterebbe di definire dei meccanismi, ivi compresi eventuali ricorsi in ultima istanza dinanzi alla Corte di Giustizia, che garantiscano che il perseguimento dell’interesse dei membri dell’una non avvenga a discapito di quello dei membri dell’altra.
Ciò implica una revisione dei Trattati. Cosa che, nella misura in cui non si tratterebbe di trasferire nuove competenze ma, per l’essenziale, di procedere ad una riscrittura dell’attuale Trattato in due trattati distinti, potrebbe perfino realizzarsi attraverso una procedura semplificata(4).
New deal
Al Regno Unito, e agli altri stati membri dell’Unione che non volessero far parte del gruppo di stati membri(5) con l’obiettivo della costruzione di una comunità sempre più stretta, sarebbero garantiti la presenza all’interno di istituzioni comuni (sebbene differenziate), un diritto di accesso a tutte le informazioni e, secondo modalità da definire, un diritto di opinione sulle politiche progettate o realizzate dai Paesi membri della Comunità. Oltre a ciò, l’assicurazione di un completamento rapido del cantiere della libera circolazione dei servizi, l’instaurazione di due bilanci separati (Unione e Comunità), l’esenzione da qualsiasi finanziamento delle politiche dell’Unione attuale, con l’esclusione dei fondi strutturali e, almeno per una fase transitoria, della PAC(6). Tutte le politiche dell’Unione delle quattro libertà sarebbero decise secondo la procedura della co-decisione.
In materia di libera circolazione delle persone, potrebbe essere prevista una clausola di salvaguardia, formulata più o meno in questi termini: “Se, in un Paese membro, il numero di residenti provenienti da altri Paesi membri dell’Unione rappresenta più del 5% della popolazione(7), questo Paese può sospendere l’iscrizione di nuovi residenti in provenienza da questi Paesi. Questa misura transitoria è applicabile per la durata di vent’anni a decorrere dall’entrata in vigore del nuovo trattato e non è prorogabile”. Inoltre, in questo contesto dovrebbe essere preso un impegno solenne a favore del proseguimento del processo di allargamento dell’Unione, dando priorità assoluta all’ingresso dell’Ucraina, i cui negoziati di adesione comincerebbero sin dall’entrata in vigore del nuovo Trattato dell’Unione e del nuovo Trattato della Comunità.
Riorganizzazione e semplificazione
Poiché la politica commerciale è di competenza esclusiva dell’Unione, per evitare che pochi milioni di cittadini(8) oppure l’uno o l’altro “reuccio” in difficoltà sulla sua scena nazionale possano bloccare decisioni ratificate dalla maggioranza del Consiglio e del Parlamento europeo qualsiasi trattato o accordo commerciale internazionale dovrebbe essere ratificato dai soli Consiglio (inteso come un Senato europeo) e Parlamento. Inoltre, tutti gli stati membri dell’Unione dovrebbero impegnarsi ad abolire i paradisi fiscali (generalizzati o costruiti “su misura” per alcune grandi compagnie multinazionali) presenti sul proprio territorio o su territori dipendenti.
In compenso, l’insieme degli stati membri della futura Unione dovrebbe impegnarsi a modificare la composizione(9) ed il funzionamento del Consiglio dei Ministri al fine di farlo diventare a tutti gli effetti, nello spirito e nella lettera del Trattato(10), il luogo della rappresentanza dei governi degli stati membri e non più il luogo della rappresentanza degli stati. Si tratterebbe quindi di trasformarlo in un vero e proprio Senato(11) dell’Unione e della Comunità. Questo sarebbe composto da cinque o sei ministri (Affari Esteri e Difesa; Economia e Finanze; Interni e Giustizia; Agricoltura, Ambiente, Energia e Trasporti; …), che dovrebbero sedere per la metà del tempo nelle rispettive capitali e per l’altra metà nel Senato europeo. Costituirebbero inoltre l’interfaccia tra l’Unione e i rispettivi parlamenti nazionali. I lavori del Senato e delle sue commissioni specializzate potrebbero così diventare pubblici.
Tutte le scorie westfaliane dell’attuale Unione dovrebbero essere eliminate: il Consiglio Affari Generali, il Comitato dei Rappresentanti Permanenti (Coreper) ed il meccanismo della “comitatologia” sarebbero sciolti, il Servizio Europeo per l’Azione Esterna (SEAE) passerebbe sotto la sola autorità della Commissione nella sua qualità di Commissione della Comunità e il vice-presidente per la Politica estera e di sicurezza dipenderebbe dalla sola Commissione. Il Presidente della Commissione dell’Unione e della Comunità, garante dei due trattati, sarebbe eletto a suffragio universale diretto dall’insieme dei cittadini europei, senza distinzione tra quelli appartenenti all’Unione o alla Comunità.
Della riconoscenza in politica
L’uscita del Regno Unito dall’Ue ha delle profonde implicazioni economiche, ma si tratta innanzitutto di una questione politica. Se in parte rappresenta il riflesso delle difficoltà generate dalla globalizzazione e da una mutazione tecnologica accelerata, è anche, per gli inglesi in particolare, il segno della difficoltà di costruire un’identità post-imperiale(12).
Oltre alle ragioni razionali già evocate, ce n’è un’altra che alcuni non considerano come parte del registro della politica, quella della riconoscenza. Nel maggio 1940, mentre l’intero continente europeo, e con esso le sue classi dirigenti, aveva capitolato dinanzi ai regimi totalitari, i britannici, comandati da Winston Churchill, hanno rappresentato per tutti i continentali lo spirito e la volontà di resistenza. Per quattro anni hanno lavorato indefessamente con gli Stati Uniti e gli altri Paesi alleati ad una delle più grandi operazioni militari di tutti i tempi – lo sbarco in Normandia – che avrebbe consentito la liberazione di una metà dell’Europa. Anche solo in nome della riconoscenza e della gratitudine per quanto fecero allora, il “Continente” dovrebbe presentare una proposta che consenta ai britannici di rimanere parte integrante del progetto europeo.
Allo stesso modo, oggi, la resistenza ostinata del popolo ucraino di fronte a un’aggressione – quella della Russia – che ci minaccia tutti, così come il suo faticoso cammino di de-sovietizzazione e di radicamento dello stato di diritto, oggi gravemente minacciato da un’oligarchia irresponsabile, meriterebbe un segno di profonda riconoscenza e di gratitudine da parte dell’Unione europea e dei suoi cittadini – con una chiara prospettiva di adesione – e non un aiuto a metà o addirittura, come nel caso del referendum olandese, un comportamento insultante e gratuito.
Le “due velocità” altrettanto indispensabili
Anche quello descritto in questo articolo è un modello di Europa “a due velocità”, non finalizzato a consentire a tutti i paesi di raggiungere, a velocità diverse, lo stesso traguardo, ma a garantire non solo la tenuta della costruzione europea, in una situazione nella quale diversi paesi intendono in modo diverso la propria “appartenenza”, ma anche la tenuta del continente europeo tout court.
Una riorganizzazione del quadro giuridico-istituzionale renderebbe l’Europa più flessibile e quindi anche più resistente, non più cedevole, alle pressioni nazionaliste, e nel contempo più accogliente e capace di affrontare, senza suscitare automatiche reazioni di chiusura, il processo di allargamento a cui rimangono candidati e interessati numerosi paesi dell’est e del sud est europeo.
Un’Europa che pretendesse di essere più “dura” restringendo progressivamente il proprio perimetro sarebbe un’Unione indebolita nella sua realtà economica, nella sua capacità strategica e nella sua doppia funzione di garante della pace e dello sviluppo nel continente europeo e di baluardo contro le minacciose ambizioni imperiali della Russia, a maggior ragione dopo l’annunciato, ma problematico disimpegno americano sul fronte europeo.
Note al testo:
(1) Di cui 52 membri del Labour su 231
(2) “Londra, Kiev e Ankara. Tre sfide e una risposta per l’UE“, Strade, 30 Gennaio 2014
(3) “Pour une Europe 4.00”, Alain Lamassoure, Commentaire 155, Autunno 2016
(4) Procedura di revisione semplificata, articolo 48 § 6 del Trattato
(5) I Paesi che hanno adottato l’euro o che si impegnano ad adottarlo rapidamente
(6) Anche nel caso di una ri-nazionalizzazione della parte non-regolamentare della Politica Agricola Comune o, detto altrimenti, gli “aiuti”, lo smantellamento dovrebbe protrarsi per 10 o 20 anni in ragione degli investimenti degli operatori del settore.
(7) Nel Regno Unito c’erano, a fine 2016, 3 milioni di residenti di altri Paesi membri dell’Unione. Rispetto ad una popolazione stimata, a fine 2016, di 65 milioni di abitanti, rappresentano il 4,6% della popolazione.
(8) Nel corso del processo di ratifica dell’Accordo di Associazione UE/Ucraina, 2,5 milioni di cittadini olandesi (19,5% del corpo elettorale del Paese) sono riusciti a bloccare una decisione voluta dagli altri 27 Paesi membri rappresentativi di 490 milioni di cittadini nonché dai rappresentanti di 45 milioni di Ucraini.
(9) Articolo 16 § 6 e articolo 236 del Trattato
(10) “Il Consiglio è composto da un rappresentante di ciascuno Stato membro a livello ministeriale, abilitato a impegnare il governo dello Stato membro che rappresenta e ad esercitare il diritto di voto”. Articolo 16 § 2
(11) “Per un Senato europeo“, Strade, 6 ottobre 2014
(12) Sulla questione, si veda il bell’articolo di Nicholas Boyle “The problem with the English: England doesn’t want to be just another member of a team“, The New European, 17 January 2017