Nel 1997 per fronteggiare l’emergenza sbarchi dall’Albania il governo del centrosinistra firmò accordi con Tirana. Una strategia che non ha pagato. E che portò alla tragedia della Katër i Radës.
Prodi e l’emergenza degli sbarchi dall’Albania
Per Prodi “l’emergenza” non arrivava dalla Libia, ma dall’Albania. Il Paese dopo la caduta del Comunismo era piombato nel caos. Proprio nel 1997 l’economia collassò. Nella Capitale Tirana scoppiarono rivolte tanto che il presidente Sali Berisha arrivò a dichiarare lo stato di emergenza. L’Albania era di fatto spaccata: solo poche aree erano rimaste sotto il controllo governativo, mentre il Centro-Sud era terra di bande armate. In questo contesto di anarchia riprese l’emigrazione attraverso l’Adriatico. Destinazione Italia.
RESPINGIMENTI E BLOCCO. Per fronteggiare l’aumento dei flussi, il governo agì su due fronti: da un lato accolse temporaneamente i migranti in condizioni di estrema necessità, rimpatriando tutti gli altri. Nel marzo 1997 passò un decreto legge per regolamentare i respingimenti e poco dopo venne firmato un accordo con Tirana per contenere il traffico clandestino. L’intesa prevedeva un pattugliamento delle coste, e dava alla Marina il potere “convincere” le imbarcazioni cariche di migranti a invertire la rotta. Insomma si trattò di un blocco navale a tutti gli effetti, anche se la Farnesina ha sempre negato questa definizione.
L’ACCORDO CON TIRANA. Scriveva la Repubblica il 25 marzo di quell’anno: «Non sono più profughi, ma immigrati non in regola. E quindi vanno respinti». Per poi aggiungere: «Ma l’Italia non si limiterà a “blindare” il canale d’Otranto; invierà anche cibo e medicinali in Albania, oltre a impegnarsi per la ricostruzione delle strutture statali. Ieri sera il presidente del Consiglio Romano Prodi e il premier albanese Bashkim Fino hanno trovato a Roma un accordo per un piano anti-esodo: pattugliamento e aiuti, appunto, con l’obiettivo finale “di ripristinare il funzionamento della vita civile, economica e politica del Paese fino alle libere elezioni politiche che dovranno presumibilmente avvenire nel prossimo mese di giugno”, dice Prodi».
«CERCANO UNA VITA MIGLIORE». Dai barconi, raccontano le cronache, venivano esplosi colpi di kalashnikov contro le navi della Marina. «Il fenomeno è mutato di nuovo: sulle nostre coste non stanno arrivando più profughi, gente spaventata», spiegava il sottosegretario agli Interni Giannicola Sinisi, «ma uomini e donne che vengono da zone dove la rivolta non è neppure arrivata. Cercano una vita migliore, un lavoro più redditizio, sono, insomma, immigrati».
LA CRITICA DELL’ONU. La linea del governo Prodi fu duramente criticata anche dalle Nazioni unite. E anche in quel caso la Lega (che si chiamava ancora Lega Nord) riuscì a distinguersi. Il parlamentare Mario Borghezio con una interrogazione chiese all’allora ministro della Sanità Rosy Bindi perché «tutti gli albanesi arrivati in italia non siano stati sottoposti al test Hiv, visto l’elevato numero di sieroposititi tra i carcerati albanesi, molti dei quali fuggiti in Italia».
28 marzo 1997: il naufragio della Katër i Radës
Gli accordi conferirono alla nostra Marina il potere di rispondere al fuoco anche in acque albanesi. Vennero poi ordinati sia la sorveglianza in mare aperto per intercettare le navi dei migranti sia il contenimento delle stesse nelle acque italiane. Il 28 marzo 1997 la Katër i Radës, una motovedetta con 120 persone a bordo tra cui molte donne e bambini rubata a Saranda dai trafficanti, dopo aver ignorato l’ordine di invertire la rotta impartito dalla Zeffiro della Marina italiana venne speronata nel canale d’Otranto da una corvetta, la Sibilla. L’imbarcazione albanese affondò portandosi dietro 81 persone. Il relitto della Katër i Radës venne recuperato ed esposto nel Comune di Otranto. In Cassazione i comandanti della Sibilla e della motovedetta vennero condannati rispettivamente a 2 anni e 3 anni e sei mesi.
«UN MITO CHE CONTINUA AD ALIMENTARSI». «Fu uno dei momenti più bui delle nostre politiche migratorie», scrisse su Internazionale nel 2015 Alessandro Leogrande, prematuramente scomparso a novembre 2017. «Ciò nonostante il mito del blocco navale ha continuato ad alimentarsi. Tra il 2008 e il 2011 i respingimenti in accordo con il governo libico sono stati condotti in maniera meno appariscente: i migranti intercettati in alto mare, benché potenzialmente profughi, sono stati riportati a Tripoli e consegnati ai carcerieri di Gheddafi. Allora al governo c’era Silvio Berlusconi e al ministero dell’Interno Roberto Maroni».
DOMANDE RIMASTE SENZA RISPOSTA. I blocchi navali, continuava Leogrande, «non hanno mai arrestato i flussi migratori. Al contrario hanno contribuito a far aumentare il numero dei morti». Per questo «chi invoca l’istituzione di un blocco navale, chi pronuncia le due parole magiche, dovrebbe innanzitutto chiedersi: ma come si attua, concretamente, un blocco navale in alto mare? Come si ferma un barcone che non vuole arrestare la sua corsa? Lo si abborda? Lo si sperona? In casi estremi, lo si bombarda?»./lettera43.it