La prefazione di Franco Di Mare per il libro best seller “I Pranzi dell’Ambasciatore” del noto diplomatico italiano Paolo Foresti.
Il fatto è che abbiamo un’età – Paolo ed io – che non ci rende così anagraficamente distanti l’uno dall’altro e io sono legato alle tradizioni, che non avverto affatto come un peso ingombrante, alla stregua di lacci fastidiosi che limitano i movimento, ma piuttosto come regole necessarie per viaggiare comodi e coperti, al riparo dell’ombrello protettivo di norme che assicurano la qualità dello standard delle relazioni e dei relativi comportamenti.
Insomma, Paolo Foresti era per me sua eccellenza l’Ambasciatore, perché era il rappresentante del mio Paese in terra straniera, la persona alla quale rivolgersi in caso di necessità, il riferimento sicuro e competente sul quale ogni cittadino che si trovi all’estero per ragioni di lavoro, o che attraversi una seria difficoltà mentre è in vacanza in un paese lontano sa, in ultima istanza, di poter contare. Porto certo e riferimento sicuro.
Per un giornalista, però, gli ambasciatori italiani in terra straniera sono qualcosa di più. Sono consulenti, oltre che rappresentanti delle nostre massime istituzioni: sono i migliori e più proficui contatti che si possano trovare fuori dai confini nazionali; punti di riferimento, fari su cui orientare la navigazione del proprio giudizio nelle tempeste informative che spesso scoppiano nelle aree di crisi; guide insostituibili nella confusione che sempre regna nelle zone di conflitto o di semplice – si fa per dire – sommovimento politico.
Provate a immaginare che cosa era l’Albania degli anni ’90. Nel paese delle Aquile regnava il caos. Tirana era da poco uscita da una delle forme di comunismo più paranoiche che si siano mai annoverate sul piano internazionale – dopo quella della dinastia rossa della Corea del Nord, ca va sans dire. Il paese era stato sotto il gioco di un’ossessione isolazionista che, con l’appoggio iniziale della Cina, ne aveva fatto una gigantesca prigione: Enver Hoxha aveva regnato sul paese dal 1944 fino al 1985 uccidendo migliaia di oppositori e incarcerandone altrettanti. La sua follia politica lo aveva indotto a vedere nemici dappertutto. Nel terrore di essere invaso dalle potenze occidentali, dalla Jugoslavia di Tito o dall’Urss di Breznev, aveva trasformato il suo paese in una specie di forte Apache nel cuore dell’Adriatico, costruendo ottocentomila bunker per una popolazione di poco più tre milioni di abitanti, che viveva in case prive di bagno.
Quando l’incubo finì, per l’effetto domino causato dal crollo del muro di Berlino, in Albania si aprì una stagione di scontri politici e di veleni. L’Italia era, ovviamente fortemente e direttamente interessata ai cambiamenti epocali che stavano travolgendo il piccolo paese delle aquile. Valona, “capitale” del sud ovest del paese era in rivolta contro Tirana. Il governo centrale non era in grado di fronteggiare né militarmente né politicamente la situazione. A Tirana socialisti e conservatori si combattevano a colpi di disinformatia e dossier (le fake news sono nate a Tirana, in quel periodo).
Il compito di osservare quel che accadeva, informare il nostro governo, tenere le fila delle relazioni, mediare fra i governi, districarsi tra le false informazioni, evitare i trabocchetti e i tranelli, vegliare sulla sicurezza della missione interforze italiana e su quelle degli italiani residenti in quelle lande geograficamente vicine, eppure tanto lontane, era affidato a Paolo Foresti. Un compito immane per un solo uomo. Eppure Paolo era in grado di fronteggiare tutto questo e la folta comunità giornalistica italiana che ogni tanto si affacciava alla sua residenza e ne approfittava per attingere alle sue preziose analisi e a qualche generoso contribuito della ineguagliabile cucina dell’Ambasciatore.
Se è vero che le difficoltà possono interrompere le relazioni o saldarle per sempre, è lì che è nata la mia amicizia con Paolo Foresti. Vederlo all’opera in uno spaventoso contesto come quello, mi ha dato modo di apprezzarne l’equilibrio, la pacatezza e la competenza. Provate voi a mantenervi tranquilli mentre Tirana viene abbandonata dalla polizia e dall’esercito, mentre il grido “Valona Valona” si leva dalla periferia di Tirana in una notte terribile e deserta. Un grido che annunciava una possibile, prossima invasione della capitale da parte dei ribelli: i prodromi di un bagno di sangue.
Il giorno dopo venne avviata una incredibile operazione di evacuazione dei residenti italiani: un’operazione che vide l’impiego di navi, elicotteri e unità speciali delle forze armate. Giorni (e notti) impossibili da dimenticare.
Tra i miei ricordi di inviato di guerra, quelli restano tra i più indelebili, perché mi hanno insegnato che le crisi, anche le più difficili, hanno sempre un possibile esito, una possibile soluzione. E che per affrontarle occorrono esperienza, sangue freddo e cultura.
Doti che a Paolo Foresti non mancano.
Oggi, a tanti anni di distanza, mi resta nel cuore il rimpianto di non essere riuscito mai a raccontare bene l’Albania che Paolo Foresti mi aveva raccontato e che mi spingeva a vedere e considerare: un paese pieno di bellezza e possibilità, ricco di storia e di paesaggi unici. Mi resta però la consolazione di aver lasciato quel luogo portando con me l’amicizia di uno dei migliori ambasciatori italiani che abbia mai incontrato.
E che io oggi mi vanto di chiamare Paolo e basta.
Non è affatto poco.