by Maurizio Turco in Notizia
Il 16 ottobre 2000 veniva assassinato a Tiblisi, capitale della Georgia, Antonio Russo, giornalista di Radio Radicale e iscritto al Partito Radicale. Un ”radicale giornalista” che non aveva paura di rischiare la vita: ultimo giornalista occidentale rimasto in Kosovo durante il periodo peggiore della pulizia etnica, era stato in Algeria negli anni peggiori della guerra civile, in Ruanda e Burundi durante i massacri etnici, a Sarajevo, più volte in Cecenia e nell’area del Caucaso.
Questo il ricordo di Ada Pagliarulo e Paolo Martini, colleghi di Antonio a Radio Radicale.
UN FREELANCE DAVVERO FREE caffeeuropa.it, 27 ottobre 2000
Lo hanno trovato sul ciglio di una strada, a pochi chilometri da Tbilisi, con il torace fracassato. Antonio Russo, quarant’anni, inviato di Radio Radicale, si trovava in Georgia per tentare di documentare la guerra dei russi contro la Cecenia, dove era già stato l’anno scorso. Questa volta non era riuscito ad arrivare sui luoghi del conflitto: aveva tentato più di una volta di raggiungerli, utilizzando una rete di contatti tra i guerriglieri ceceni, ma il controllo era diventato ormai serratissimo.
Spariti computer e telefonino. Pare abbia dato a qualcuno di cui si fidava nuovo materiale su quella guerra. Nelle sue intenzioni, quella documentazione avrebbe dovuto comporsi in un dossier da consegnare nelle mani dell’alto commissario ONU per i diritti umani, Mary Robinson.
Antonio non piaceva ai russi, irritati per l’ingerenza nei loro affari interni di tutti quei rompiballe collegati ai radicali, che erano arrivati addirittura a far parlare, dalla Commissione diritti umani a Ginevra, un parlamentare ceceno.
Antonio era lì perché non era tipo da scrivania. Dopo due o tre mesi di vita cittadina, scalpitava per andare altrove. Era sempre di passaggio. In Ruanda e Burundi durante i massacri hutu e tutsi; in Algeria, quando uomini, donne e bambine venivano sgozzati; a Sarajevo, quando i cecchini freddavano i civili al mercato.
Mai un recapito telefonico d’albergo. Ha sempre scelto di mescolarsi. “Sono a casa di amici, mi ospitano finche’ possono”. A volte al buio, come accadde a Prishtina: in tutto il Kossovo non c’era più un solo giornalista occidentale. Si era nascosto in una casa privata: i serbi sapevano di lui, ma non riuscivano a trovarlo. Tra un rastrellamento e l’altro, riuscì a scappare mescolandosi a una colonna di profughi kosovari, saltò su un treno e arrivò in Macedonia. Ma per lui, quella non poteva restare soltanto un’esperienza professionale: non ha mai voluto vendere il materiale che aveva raccolto e consegnato al Tribunale ad hoc sulla ex-Jugoslavia, per documentare la pulizia etnica dei generali di Milosevic.
Antonio Russo non apparteneva all’ordine dei giornalisti: era un free-lance. Molto free. Il suo linguaggio scarno e crudo lo teneva lontano da ogni compiacimento: non c’era alchimia, non c’era narcisismo. Orgoglio si’, e tanto.
“Senti, Mentana, adesso m’hai rotto il cazzo”. Pronunciò questa frase il giorno che era circondato dai cronisti di mezzo mondo che gli chiedevano, a Skopje, l’ennesimo racconto di quella fuga “rocambolesca” – così scrivevano – da Prishtina. C’era poco di rocambolesco, aveva paura e basta. La sera prima di sparire sul treno aveva parlato in diretta alla radio per due ore. E aveva esordito così: “qui è un casino”.
Non gli piacevano gli alberghi internazionali per cronisti. Li considerava parte di una specie di circuito turistico ad hoc dedicato alla stampa di guerra. Antonio li chiamava “i viaggi organizzati”. Lui cercava una casa per ospitare amici, gente del posto che fosse disposta a raccontare. Per loro e con loro cucinava e beveva. “Na sdarovie”, alla salute di quei disperati. A Prishtina è stato così, a Tblisi era così. Cercava di sbarazzarsi al più presto degli interpreti e dell’inglese standard da inviato, per assimilare e assimilarsi agli interlocutori del luogo.
I “grandi” cronisti storcevano il naso ascoltando il suo raccontare naif, e alzavano le sopracciglia ostentando perplessità sulle sue “fonti”. Ma è al “gazetari italian Antonio Russo” e alla sua morte che il quotidiano kosovaro “Koha Ditore” ha subito dedicato un articolo. Con foto di lui, felice di essere al centro della polveriera, accanto a un kosovaro in divisa. I due si guardano negli occhi, confusi tra una folla di profughi . Il “gazetari” ride, la distanza è annullata.
Lui era stato capace, la notte del capodanno 2000, di raccontare i festeggiamenti da un villaggio al confine tra la Georgia e la Cecenia, nell’area di Pankisi. Il capodanno dal Caucaso, con tre ore di anticipo rispetto al nostro. Non era uno scoop particolare, ma in radio “funziono’” meglio di qualsiasi altra trasmissione fatta da Radio Radicale a quell’ora.
Quando tornò dal Kossovo, gli chiesero di scrivere un libro. Lo fece, ma non sappiamo cosa ne sia stato. Volevano girare un film su di lui, e un giorno arrivò in radio con un soggetto scritto – disse – “da un certo Aurelio Grimaldi”. Era esattamente come uno si aspetta che sia un film di Grimaldi: un cronista che ha visto gli orrori delle guerre, che si ubriaca e chiama di notte la sua compagna dicendo: “stanotte voglio scopare”. Più o meno così.
Non crediamo che Antonio si riconoscesse nel personaggio. Chissà se nel film ci sarà la storia dell’anellone che aveva al dito, quello che fu costretto a tagliare al ritorno dalla Bosnia. Una ferita da nulla, che non aveva potuto mai disinfettare a fondo, gli aveva provocato una infezione sotto l’anello. Non riusciva più a sfilarlo. “L’ho segato via”, disse. Si è invece sempre rifiutato di tagliare il lungo codino un po’ fuori moda che gli scendeva sulle spalle. E che lo rendeva così pericolosamente riconoscibile. “Anto’, mo’ che torni in Cecenia tagliati quel codino…”.
Tre, quattro, cinque premi: giornalista dell’anno a Ischia, premio Andrea Barbato, premio Ilaria Alpi… Spesso preferiva far parlare le fotografie, le riprese amatoriali che poi faceva circolare in Rete. Era l’evidenza cruda della guerra in Cecenia: prove, andava alla ricerca delle prove di un genocidio quando ancora le cronache dei giornali parlavano solo di “ceceni mafiosi”.
Che il suo omicidio abbia ragioni politiche è probabile. Ma certa è la determinazione con cui ha inseguito, cercato le notizie in situazioni di totale, assoluto e controllato black-out dell’informazione. Dove cercarle imponeva il contatto con persone che avrebbero messo a rischio la sua incolumità. Paesi in cui chi ti fa fuori è sicuro che non sarà facile capire se sei stato ammazzato per i dollari che hai in tasca o per quello che hai visto e raccontato.