L’Albania si avvia verso una nuova era della sua storia e in questo tragitto c’è bisogno di tutti
Di Anita Limeta
Tornare nella terra in cui sono nata, dopo lunghi anni, è stata per me una esperienza di forte impatto, uno scontro di sensazioni con le quali, appena rientrata in Italia, devo fare i conti. Tirana non è più la città che ricordavo: come una ragazzina che ritrovi donna, Tirana ha cambiato faccia, è cresciuta in altezza, quasi non la riconoscevo. Eppure, accanto ai nuovi grattacieli e al grande centro commerciale Toptani, qua e là resistono residui dell’urbanistica hoxhaista. Come a ricordarmi l’infanzia difficile da cui quella ragazzina è scampata.
Camminando per le strade della capitale ho incontrato i volti solcati dalle rughe di una vita che non è stata mai facile, ma anche la freschezza di una gioventù cha ha voglia di mettersi in gioco, con una luce negli occhi, con una vitalità che mi ricorda quella di certi film italiani degli anni sessanta. E nonostante l’occidentalismo possa far paura, perché ha investito la società come un tornado, senza quasi lasciare il tempo agli albanesi di capire quello che stava succedendo, è tuttavia palpabile la disponibilità a mettersi in gioco, a rischiarsi il futuro in un mondo difficile ma finalmente aperto a infinite possibilità.
Piazza Skanderberg, oggi tutta area pedonale, comunica una grande apertura: i bambini giocano, i musicisti di strada ti regalano ad ogni angolo della piazza un sorriso e suonano il classico repertorio di musica “arbëreshë”. Camminando in mezzo alla piazza, le immagini memoriali di come l’avevo conosciuta si sovrappongono a quelle che mi trovo davanti agli occhi, e mentre pranzo in uno dei ristoranti più modaioli della capitale, il mio sguardo sconfina oltre le grandi vetrate del locale.
Il mio commensale, Dastid Miluka, considerato uno dei più grandi pittori albanesi contemporanei, mi indica la statua dell’eroe nazionale e subito dopo mi indica il chiosco dove i cittadini fanno la fila per vaccinarsi, ricordandomi che proprio lì, al posto di quel presidio per la salute pubblica, spadroneggiava un tempo quella statua di Enver Hoxha che 30 anni prima, proprio lui e i suoi amici studenti, buttarono giù e trascinarono via.
La vittoria alle elezioni del leader del Partito Socialista Edi Rama è sulla bocca di tutti quelli che incontro. C’è chi ne è contento chi no. Alla grossa, i cittadini di Tirana non si mostrano entusiasti, mentre chi abita nelle periferie, soprattutto i contadini con cui ho avuto modo di parlare, lo adorano: è decisamente il loro uomo. A differenza delle democrazie europee insomma, il centrosinistra qui ancora non pare coincidere con le ZTL.
La cosa straordinaria di Tirana, lo capisco subito, è che il potere è davvero a due strette di mano: i politici, o chi lavora per loro, non hanno la spocchia di chi è arrivato. Gli albanesi sono un popolo ospitale, non sono mai riuscita a pagare un caffé. L’ospite è sacro in Albania, e un ospite, mi rendo conto, è quello che sono. E mentre faccio la turista da un angolo all’altro della città, da uno studio televisivo all’altro, noto i volti delle persone. Quelli sì non sono granché cambiati.
Accetto l’invito del rabbino dell’Albania Yisroel Finman, al centro cinematografico Pietro Marubbi, pittore italiano naturalizzato albanese e sostenitore di Garibaldi, che venne coinvolto durante i moti risorgimentali nell’omicidio del sindaco di Piacenza costringendolo così, nel 1856, a emigrare nell’Albania dell’impero ottomano. Il centro cinematografico Marubbi ha un giardino meraviglioso, pieno di opere di artisti contemporanei albanesi. Con il rabbino rimaniamo seduti a parlare dell’Albania degli ultimi anni, dei movimenti studenteschi, degli ebrei che vennero salvati dal popolo albanese, del progetto di costruire insieme un Albanians National Museum of Holocaust e, più in generale, di questa fragile democrazia che ci vede tutti coinvolti.
Inizia a pioviccicare e lasciamo il centro cinematografico e il suo meraviglioso giardino che si apre accanto al Ministero delle Finanze e del Commercio. Una strada provinciale ci separa dai nuovi palazzi costruiti negli ultimi anni. Ammassi di cemento che fuoriescono dalla terra e che i cittadini albanesi chiamano case. Non c’è equilibrio architettonico, sono palazzi partoriti in piena crescita economica del paese: ricordano le speculazioni edilizie dell’Italia del boom. Palazzi senza una identità, senza storia: grigi e stretti, gli uni agli altri, come a tentare di non cadere nonostante sembrino ancora nuovi. Per strada i cittadini vanno in bicicletta, altri in macchine dal motore truccato, con il volume dello stereo a mille. Le persone qui si affrettano per andare da qualche parte, sembrano tutte in ritardo. Cerco di scrutare i loro volti, nei loro occhi leggo ancora smarrimento e un po’ di tristezza. Una giovane donna mi viene incontro, è ben vestita, con la sua 24 ore sotto braccio. Ha uno sguardo sospettoso. Cammina su tacchi a spillo altissimi. In punta di piedi al suo dolore, penso.
E infine l’incontro con Blendi Fevziu, il conduttore TV più noto in Albania che qui paragonano a Bruno Vespa. Un uomo molto gentile. Fevziu, negli studi di RTVKlan, mi mostra la statua di mio zio, il pittore Ibrahim Kodra, migrante a sua volta nell’epoca del re Zogu e morto a Milano nel 2006, che è riuscito a salvare.
E così, davanti a quella statua che riproduce le immagini dei suoi quadri, rivedo la mia storia. Perché l’arte, come la filosofia, anticipa la vita e getta la sua rete di senso sempre un po’ più in là, in un’Albania fantastica ancora tutta da inventarsi.
Ma Tirana è una capitale in grande espansione, il lavoro di questi ultimi 30 anni è visibile nelle strade, negli edifici, nei parchi, nei locali alla moda. Camminare per le vie di questa città non fa più paura. Anzi, si ha come la percezione di essere protetti.
L’Albania si avvia verso una nuova era della sua storia e in questo tragitto c’è bisogno di tutti. Negli occhi dei miei connazionali in questi giorni ho letto voglia di vivere, desiderio di ripartire, di scoprirsi. Nei volti dei cittadini albanesi ho letto tanti valori, ma soprattutto ho visto la partecipazione attiva alle tematiche politiche: la partecipazione dei cittadini comuni alle discussioni in ogni bar, mi ha commosso. I giovani albanesi sono pieni di talento, sono gentili, aperti al futuro e alle potenziali connessioni culturali.
In Albania, in questi giorni, non mi è mai capitato di ascoltare una parola denigratoria o offensiva. Qui il razzismo non è ancora di casa. Per il resto, in questo viaggio di ritorno nella mia patria di origine, la sensazione più buffa che ho provato riguarda proprio la constatazione di quanto il popolo albanese sia simile a quello italiano. Simile, certo, ma solo ancora un po’ più giovane.
Sapere di poter cambiare le cose: questa è la sensazione che riassume tutto il mio viaggio.
Il terzo mandato di Rama può suggellare questa nuova ripartenza se l’Europa finalmente comprendesse che è necessario far ripartire i negoziati di adesione il prima possibile.
Perché c’è una forza nel popolo albanese che ancora ti coinvolge pienamente e ti trascina a ripensarti come individuo nella storia, come cittadino nel mondo, come essere umano in viaggio. Questa energia io credo possa davvero servire all’Europa e all’Italia: il paese di fronte adesso è ancora più vicino./HuffPost.it