In una recente conferenza Pierfranco Bruni, leggendo la letteratura e l’estetica del Novecento si è soffermato, dopo una chiave di lettura tra lo spazio della parola e il tempo del pensiero, su Pier Paolo Pasolini, di cui ricorre il centenario della nascita il prossimo anno, ha affermato:
Pasolini usa un linguaggio impoetico per restare “Passione e ideologia”. Il resto è caduta… anzi provincialismo. Diede giudizi sarcastici come quello su Cesare Pavese. Non so se avesse afferrato o letto la grande arte e il sublime dello scrittore de “Il mestiere”.
Pavese è un unicum. Pasolini è il risultato della cronaca che visse. Punto. Sciascia nei confronti di Pasolini è il vero maestro. Pasolini non è un enigma. È la contraddizione tra la sconfitta della tradizione e l’incapacità di comprendere la dilaniante cultura del gramscismo provinciale che non ha dato alcuna arte.
L’unico testo è “Casarsa”, ma è ricerca lingua percezione antropologica. Non altro. Nel mio saggio del 2006 sottolineo ciò. So che Pasolini è considerato una icona ed è, quindi, considerato intoccabile.
Ma il poeta non esiste, (non c’è!) come lo scrittore che in lui ha soltanto la motivazione della conoscenza della rappresentazione della cronaca. È altro. È un tentativo in regia. Una intelligenza acuta e formidabile, certamente.
Un intellettuale, come si diceva un tempo. Ma molto distante dall’arte. Sarò crociano? In poesia e in estetica sì. In filosofia sono zambraniano. Pasolini non conosceva Pavese, pur parlandone male, e non aveva compreso il primo Sciascia.