Di Gianmarco Pisa
Il film “Hive” (in italiano, “Arnia”), una produzione congiunta tra Kosovo, Macedonia del Nord, Albania e Svizzera, con la regia e la sceneggiatura di Blerta Basholli, è, si potrebbe dire, un film necessario, basato sulla storia di Fahrije, il cui marito è scomparso durante la guerra in Kosovo. Fahrije abita nel villaggio kosovaro di Krushë, dove avvia la sua piccola attività agricola e di trasformazione, per provvedere ai suoi figli, e la sua attività è, al tempo stesso, lo strumento per andare avanti e poter sostenere la propria famiglia, e una potente testimonianza, contro le ferite e le lacerazioni della guerra, contro la violenza che ha distrutto i legami sociali e familiari, in Kosovo e non solo, e, prima e dopo la guerra, contro la società tradizionale e patriarcale, che storicamente relega le donne alle incombenze tradizionali di cura della casa e della famiglia.
La notizia è che il film, presentato al Festival di Sundance del 2021 e già passato alla storia per essere stato il primo film del Sundance a vincere tutti e tre i premi principali del World Cinema Dramatic Competition, il Gran Premio della Giuria, il Premio del Pubblico e il Premio alla Regia, è ora entrato nella selezione finale per la 94° edizione degli Academy Awards, la rassegna dei premi Oscar. Fahrije, la protagonista, è Fahrije Hoti, e la sua storia accompagna la storia delle vedove di Krushë, che insieme hanno dato vita alla Cooperativa Agricola Krushë, nata per fornire sussistenza alle vedove di guerra e agli orfani e che, con il tempo, è diventata un’impresa di successo, presente ed elogiata nelle fiere di settore nella regione, interamente gestita da donne, capace di portare i suoi prodotti in circa duecento negozi in Kosovo e di esportare in diversi Paesi europei. A fermarsi all’arido linguaggio imprenditoriale, si direbbe «una storia di successo», non diversa da altre; a conoscere però il contesto che fa da sfondo alla storia, essa si tramuta invece in una storia di coraggio e di forza, dell’andare avanti oltre la guerra.
Attraversato dalla guerriglia separatistica dell’UÇK, l’intero territorio di Orahovac, che sorge a nord dei villaggi “gemelli” di Krushë e Madhe e di Krushë e Vogel, fu teatro di scontri con le forze di sicurezza serbe per tutto il 1998; il territorio era, per oltre il 90%, abitato da kosovari albanesi, salvo Velika Hoča, poco distante da Orahovac, uno dei luoghi più significativi per le comunità serbe del Kosovo. Il 19 luglio 1998 Orahovac fu teatro di una violenta offensiva da parte dell’UÇK che provò a prendere il controllo della città; ma già il 22 luglio il tentativo fu sventato, mentre le forze di sicurezza serbe lanciavano una controffensiva che si sarebbe sviluppata nel corso dell’estate, recuperando gran parte del territorio che l’UÇK aveva precedentemente preso. Numerosi i civili, serbi e albanesi, caduti negli scontri della primavera-estate 1998; decine le persone disperse. Tra la fine del 1998 e l’inizio del 1999, in sostanza, la gran parte dei territori precedentemente dichiarati liberatidall’UÇK erano stati nuovamente portati sotto il controllo delle autorità serbe; nella primavera del 1999, l’aggressione della NATO e i bombardamenti aerei delle potenze occidentali avrebbero fatto precipitare nuovamente la regione nel caos. Nel periodo dei bombardamenti, inoltre, nei villaggi si consumarono violenze e ritorsioni, a partire dal 24 marzo.
Krushë e Vogel è un villaggio rurale abitato da poche centinaia di persone. Secondo le testimonianze, tra il 25 e il 26 marzo 1999, le forze di sicurezza serbe hanno radunato gli abitanti dei villaggi, separato gli uomini, e portato alla morte circa cento persone. Il villaggio, dopo la guerra, è tornato alla vita essenzialmente grazie al lavoro e alla forza delle donne; numerose organizzazioni internazionali, anche della società civile italiana, hanno fornito supporto per le mille incombenze della ricostruzione, per ripristinare il villaggio, per attrezzare le cooperative della produzione, del latte, del miele, dell’artigianato dei tessuti, per sostenere la produzione tradizionale di ajvar che ha reso famosa, nella regione e all’estero, l’attività (e la storia) di Fahrije e delle donne del villaggio. Le donne avevano già imparato a guidare, a seminare, a tessere, a usare il computer, e presto hanno imparato a gestire una vera e propria attività di produzione agricola. Nell’aprile 2002 hanno fondato l’associazione delle donne “Krushë e Vogel”, con due obiettivi: garantire alle vedove e agli orfani di guerra nuove opportunità di sostentamento e la possibilità di andare avanti oltre la tragedia della guerra. L’associazione, e successivamente la cooperativa, non si occupano solo, infatti, della coltivazione dei campi, della produzione del latte, della produzione della tipica salsa di peperoni, ajvar: l’obiettivo, come si direbbe, sovra-ordinato è infatti quello del rafforzamento della posizione e del ruolo delle donne (empowerment), non solo in relazione all’elaborazione del lutto e del trauma della guerra, ma anche in relazione all’abbattimento delle ancora fin troppo numerose barriere, non solo visibili, che impediscono alle donne un ruolo da protagoniste all’interno della società. Come ha ricordato in una intervista la regista, Blerta Basholli, «anche Krushë sta cambiando, soprattutto grazie a Fahrije. Ma penso che ci sia ancora molto da fare per migliorare la condizione delle donne in Kosovo, a Hollywood, e ovunque nel mondo».
Come ha evidenziato Alberto L’Abate, ispiratore, come accennato poc’anzi, di uno dei progetti per la comunità di Krushë, «lo sviluppo di questa attività, oltre a migliorare le condizioni economiche di queste donne, …agirebbe come centro propulsivo per l’economia dell’intera comunità. […] Tra le regole della giustizia riparativa (o ricostruttiva)… è quella della necessità di sostenere concretamente le vittime delle ingiustizie e della guerra. Nel Kosovo questo tipo di giustizia trova degli antecedenti importanti nelle regole ancestrali sancite dal Kanun, attualizzate dall’importante movimento di riconciliazione tra gli anni ’80 e ’90 guidato dal noto etnologo Anton Çetta, e dai suoi più stretti collaboratori, e che ha portato alla riconciliazione di circa un migliaio di famiglie».
Gianmarco dPisa
Gianmarco Pisa, operatore di pace. Impegnato in iniziative e ricerca-azione per la trasformazione dei conflitti, nell’ambito di IPRI (Istituto Italiano di Ricerca per la Pace) – Rete Corpi Civili di Pace, si occupa inoltre di inter-cultura e inclusione presso i centri di ricerca RESeT (Ricerca su Economia Società e Territorio) e IRES Campania (Istituto di Ricerche Economiche e Sociali), a Napoli, la sua città. Ha all’attivo pubblicazioni sui temi del conflitto e della pace e azioni di pace nei Balcani, per Corpi Civili di Pace in Kosovo, e, in diversi contesti, nello scenario mediterraneo.