Di Fabio Rocchi
Chi, in vena di nostalgia e attratto dal titolo, attendesse una riedizione in chiave attuale dei patemi d’animo della povera Emma, rimarrebbe però drasticamente deluso.
Hera Merkuri, la protagonista, non è Emma Rouault! Hera è, più che un’eroina dell’amore, un’eroina della riflessione. Si è finalmente liberata sia da un retaggio culturale e matriarcale che la ha spesso condizionata sia dai falsi miti letterari che, ancora adolescente, le erano sembrati l’unica via di fuga rispetto a un mondo dominato dall’oppressione e da regole comportamentali assurde.
A giorni uscirà un mio articolo dedicato a questo romanzo. Nel frattempo ripropongo oggi – in tre parti – l’intervista che ho fatto nel 2021 ad Anilda, contenuta nel mio libro dedicato alle Prime voci dell’italofonia albanese.
Storie che voglio raccontare. Anilda Ibrahimi 1/3
Roma – Tirana. 26 aprile 2021.
- Mi ha sempre infastidito la posizione per la quale un critico, nel tentativo di portare avanti un certo tipo di lettura, ha creduto lecito avvicinarsi alla tua opera – e non solo alla tua purtroppo – attraverso il filtro del biografismo. Dunque, non ti chiederò come eri tu quando avevi vent’anni e vivevi a Valona o a Tirana, né per me ha rilievo ai fini dell’analisi dei testi il recupero delle esperienze che hai vissuto prima o dopo il momento in cui hai deciso di lasciare l’Albania. Mi interessa invece molto di più sapere da quali libri era composta la tua biblioteca fino all’anno 1993.
Non ho alcun timore nel parlare del mio passato, anche se sono dell’opinione che al mio pubblico non interessi granché. Personalmente divido lo scrittore dalla persona, credo che ci sia una grande forza in coloro che, soprattutto ai tempi d’oggi, riescono a tenere a distanza il loro privato. Credo anche che il filtro del biografismo nei miei libri, soprattutto nel primo, sia stato usato fin troppo spesso. Questo è accaduto per due motivi. Il primo è perché essendo io stata etichettata, almeno all’inizio, come scrittrice migrante, secondo quella logica, di cosa avrebbero potuto scrivere i migranti se non di storie biografiche? Il secondo motivo è l’auto-fiction, definizione coniata per la prima volta dal francese Serge Doubrovsky. Ora è un fenomeno di massa, dove l’autore è spesso protagonista delle vicende narrate e quindi siamo andati oltre i semplici elementi biografici. Non ho mai scritto storie autobiografiche, ho scritto di cose che conosco bene, come diceva Flannery O’Connor: «si scrive e si deve sempre scrivere di ciò che si conosce e per farlo è necessaria una storia di portata mitica, una storia che appartenga a tutti». Ho scritto romanzi raccontando un mondo che conoscevo bene, ma ciò è accaduto sempre in una modalità in cui io fossi in grado di distanziarmi da me stessa, è stato in un altro senso che io ho scritto, quello generazionale. Ho preso una storia che mi apparteneva e l’ho fatta diventare qualcosa che appartenesse a tutti.
Fino all’anno 1993 ho letto tanto, e anche questo fatto credo che sia generazionale. Nella mia infanzia e adolescenza era l’unica cosa che si poteva fare in modo individuale, poiché il collettivismo era un punto forte della dittatura. Si facevano lavori socialmente utili tutti insieme, si cantava, ma in coro, nelle escursioni sulle montagne si marciava con tutta la scuola, ogni cosa si svolgeva all’interno di un grande collettivo a cui eri obbligato ad appartenere. C’erano anche i gruppi di lettura, ma almeno il libro si leggeva prima, in solitudine. Leggere ti permetteva di vivere altre dimensioni, capire che là fuori c’era un mondo grande e per quanto in questi gruppi di lettura o a scuola venisse condannato, intanto esisteva. Le mie letture erano quelle classiche, l’Ottocento per capirci. Partendo dalla letteraura russa con Tolstoj, Turgenev, Dostoevskij, passando da quella inglese, Dickens e Thomas Hardy, per arrivare a quella francese, Dumas, Balzac, Stendhal, Hugo, Maupassant. Oltre l’Ottocento c’era anche una parte importante rappresentata dalla letteratura americana, con Hemingway e Jack London. Naturalmente non potevano poi non entrare nelle mie letture anche autori provenienti dal blocco socialista come Gorkij o Hašek. Ho avuto un passaggio molto veloce dalle letture per i bambini alla letteratura vera e propria; avevo dieci anni quando, appena finì la scuola, mio padre mi portò in camera mia con Guerra e pace, un quaderno e una penna. Avrei dovuto fare il grande passo, come mi disse lui, e per questo dovevo prendere appunti su ogni cosa, idee, trama, personaggi e altro. Perché Tolstoj era una cosa seria, non come i libri che avevo letto fino a quel momento. Ho detto addio alla mia infanzia con David Copperfield, che avevo appena finito di leggere e che era stato definito sempre da mio padre un libro per ragazzi. Nonostante questa forzosa separazione, di quel personaggio non mi sono mai scordata, il primo figlio maschio l’ho chiamato David in suo onore.
- Come sai, perché ne abbiamo più volte discusso, considero L’amore e gli stracci del tempo il tuo romanzo più riuscito. Lì l’Albania, come tema e come ossessione conoscitiva, veniva del tutto messa da parte. Voglio dire che nel tuo secondo romanzo, dopo la pubblicazione di Rosso come una sposa, avevi come tentato di spiccare un salto che ti rendesse diversa e che ti affrancasse anche da quella corrente letteraria che stava nascendo e che ho cercato di descrivere in questo libro. Posso chiederti perché al momento hai deciso di non ripercorrere più quella via?
Ho esordito con Rosso come una sposa, in cui il fulcro per me non era ricostruire il Novecento ma raccontare la trasmissione di una cultura al femminile che l’era moderna stava spazzando via. Subito dopo, ho scritto L’amore e gli stracci del tempo e in quel momento, dopo l’ultima guerra nei Balcani, avevo trovato una storia che volevo raccontare e avvertivo una certa urgenza nel farlo. Dopo quel romanzo anch’io pensavo che avrei scritto storie più contemporanee e soprattutto lontane dall’Albania. Ho pensato che in quel momento L’amore e gli stracci del tempo non mi era capitato per caso. Nel mio profondo sono stata sempre intimorita in un certo senso dal fatto che uno scrittore debba raccontare sempre la sua terra, come se la sua dimensione fosse legata solo a questo. Spesso mi sono detta: va bene, sono nata in Albania e me ne sono andata a ventidue anni, però non posso raccontare tutta la vita un posto che ora non mi appartiene se non per i legami del sangue. Ho visto tutto sommato che questo fenomeno non riguarda solo me; in Italia uno scrittore siciliano o napoletano racconta in qualche modo sempre il suo “villaggio”. In primis ho collegato questa tendenza, per restare in tema, con Tolstoj, che diceva: «se vuoi essere universale racconta il tuo villaggio». Dopo, ho capito che qui si trattava d’altro, mi sembra che la cultura odierna abbia sostituito il concetto di sangue e suolo con quello di parola e il suolo è divenuto solo ciò che si riesce a vedere intorno. Un concetto di morte della patria, dove non vedo un male o un bene sia chiaro, ma se Pirandello celebrava la morte della sua antica patria oggi si celebra la rinascita di tante piccole patrie. In queste celebrazioni io, come scrittrice migrante, in un certo senso rimango sempre orfana, non posso celebrare alcuna rinascita con le storie del mio suolo, perché è sempre un suolo altrui, persino per i miei lettori. Posso solo “piangere” la morte della patria precedente, e anche quella rimane solo mia. Non volevo fare questo per sempre e quindi avevo pensato di chiudere con le storie ambientate in Albania.
Mi sono resa conto però che non avevo ancora finito; ad esempio, la storia degli ebrei salvati durante la guerra l’ho scoperta nel 2009 tramite una mostra del fotografo Norman Gershman in Italia. Così sono ritornata indietro senza pensare più al resto, se devo rimanere orfana va bene cosi, l’importante è che io riesca a scrivere le storie che voglio raccontare.