di Stefania Romito*
Mai come in “Per assenza d’uomo” di Manuz Zarateo (Passerino Editore) l’intreccio tra parole e immagini raggiunge livelli di intensa attrazione nel profetizzare un percorso umano che scandisce la storia nel suo inesorabile sviluppo ciclico.
Il racconto in versi dell’inedito poeta turco, della cui opera Pierfranco Bruni si è fatto curatore, costituisce un polimorfo tracciato di magnetismi orientali e occidentali in cui il ruolo di primo piano è affidato al panorama russo-ucraino, ripetuto teatro di scontri bellici.
Le imponenti immagini evocate dalla coinvolgente fusione di espressioni liriche e visive, che sorprendono per la loro attualità, segnano un cammino in cui la tragicità del reale rinviene una dimensione metafisico-spirituale.
Il mare come involontario testimone di distruzione e morte. La sontuosa Odessa rimembra i suoi fasti vulnerabilmente ferita. La nebbia suggella l’invisibile che tinge la speranza nel ricordo di antiche emozioni che solcano il vento dei mari nel rosso dei tramonti.
Le laceranti nebbie della guerra si contrappongono ai trascorsi splendori di un glorioso passato in grado di abbagliare con la sua magnificenza. Un tema costante nella composizione lirica di Zarateo che Bruni pone in evidenza. Ed è proprio nel “crepuscolo d’oro” di Pietroburgo e nei canti orientali delle donne che il poeta rinviene una spiritualità immanente.
Ciò che aborrisce, nei conflitti dall’insensato senso, è la violazione di una innocenza che nell’oltraggio perde ogni speranza di esistenza. Zarateo sa che il pianto dei bambini sotto le bombe preclude ogni alba di orizzonte.
La disumanizzazione dell’anima è il fatale esito di una pericolosa onnipotenza che fagocita l’uomo. Più si innalza questo sentire, più si precipita nella nullità. I volti si confondono, i contorni si sbiadiscono, le emozioni si dissolvono in un tempo sconfitto. Lo scenario russo-ucraino si tinge profeticamente di ferite inferte a un popolo che da sempre vive nell’essenza di una cultura in cui la spiritualità è il collante tra il demone e il divino. Un dualismo che presenta inediti punti di contatto che la poesia indaga e restituisce.
Il ghiaccio è glacialità di impietosità. Il deserto, il rogo della sofferenza. La terra, dimensione dell’orrore. Il mare, veicolo per l’Altrove.
In questa landa desolata di città disperse nella noia del “mai”, l’arrivo dei Tartari è il “sempre” che dona spiragli di luce.
Dall’oscurità di un’umanità afflitta si eleva il canto d’amore che sboccia come rosa di deserto. Un impulso naturale che in Zarateo acquisisce le trascendentali movenze del fumo oltre il vento.
Così è la poesia di Zarateo in cui le immagini incidono solchi in una geografia mistica di rara bellezza: «Non sfiorare il vento nell’ora del deserto. Sarà il vento a traghettare i fiumi dal ghiaccio delle solitudini».
Ogni storia diventa tale in virtù del tempo che stabilisce realtà. Ma Zarateo sa che quando la realtà non sarà più soggetta al tempo, ogni corso e ricorso abbandonerà la sua ciclicità. Soltanto in quel momento l’uomo sarà finalmente libero.
*giornalista e scrittrice