Di Pierfranco Bruni
Era il tempo di Amedeo Nazzari. Di Vittorio De Sica. Di registi come Blasetti. Personaggi che avevano portato all’interno del complesso cinematografico quell’arte che è espressione di un valore fondamentale in grado di catturare in un’immagine l’immaginario e il sogno. Quel tempo era anche quello di Luisa Ferida e Osvaldo Valenti. Massacrati il 30 aprile del 1945.
I loro corpi giacevano inermi in via Poliziano a Milano. Lei stringeva in un pugno una scarpetta di lana celeste. Erano stati falcidiati dai mitra delle Brigate Osoppo. Quel gruppo di partigiani che dietro il comando, non si sa di chi, diede la morte a Luisa Ferida e Osvaldo Valenti. Due grandi artisti che avevano aderito alla Repubblica Sociale di Salò. Attori che avevano fatto la storia del cinema italiano negli anni del Fascismo e che avevano dato un senso alla cinematografia dell’epoca, passando dal clima e dall’atmosfera dei telefoni bianchi al cinema successivo.
Dopo il 25 luglio e l’8 settembre del ‘43, Osvaldo Valenti e Luisa Ferida decidono di abbandonare Roma. Il cinema si stava trasferendo sulla Laguna di Venezia. Al contrario di altri attori che riuscirono a rimanere a Roma, o imboscati in altri luoghi, Luisa e Osvaldo decisero di proseguire la loro carriera di attori trasferendosi al Nord dove, tra Venezia e Milano, continuarono a svolgere la loro attività artistica.
Osvaldo Valenti nacque nel 1906. Luigia Manfrini Farné, in arte Luisa Ferida, nel 1914. Osvaldo era nato a Costantinopoli. Figlio di un barone le cui origini erano siciliane (di Messina), mentre la madre era figlia di un archimandrita di Cipro.
Luigia Manfrini Farné, invece, era nata a Bologna. Il padre era un possidente terriero di Castel San Pietro. La loro fu una storia molto inquieta e travagliata, ma ciò che mi interessa, in modo particolare, è il grande amore che li univa. Perché vennero uccisi? Perché vennero falcidiati dai mitra?
È necessario cercare una risposta oggi? Non so. Ciò che resta è una storia dentro la storia e dentro le storie. In quegli ultimi istanti di vita, Luisa si doveva essere chiesta perché doveva morire. Aveva compiuto soltanto 31 anni. Osvaldo, invece, di anni ne aveva 39 quando i fari illuminarono i loro corpi lanciati fuori dal camion e falcidiati.
Credo che questa storia, come quella di Claretta e Benito, sia dentro il destino degli uomini e di un tempo, qual è stato quello tra il ‘43 e il ’45. Vennero uccisi a guerra finita, quando già Mussolini e Claretta erano stati appesi dai talloni a Piazzale Loreto. La pietà umana che senso può avere davanti a una simile situazione? Mi chiedo se esiste la pietà…
Osvaldo aveva aderito alla Xª Flottiglia MAS di Junio Valerio Borghese e poi era stato un frequentatore di Villa Triste in cui si commettevano sevizie ai danni dei partigiani, il cui protagonista era Koch. È la storia che racconta. Osvaldo frequentava questa “casa”, rimasta aperta per circa un mese. Le accuse rivolte, sia a Osvaldo che a Luisa, furono di connivenza con Pietro Koch, il fustigatore dei partigiani. Ma Luisa era al di fuori di tutto questo. Una donna che aveva sofferto molto per la perdita del figlio Kim. Non si separava mai dalla sua scarpetta di lana… Aveva anche subito il dolore profondo di un aborto.
Quando venne massacrata dai colpi del mitra, era nuovamente incinta. Si può uccidere una donna in questo modo? Ora riposa accanto a Osvaldo nel Cimitero di Musocco, Campo X del Cimitero Maggiore a Milano. Insieme per sempre. Due croci. Nessun epitaffio, soltanto l’incisione della data di morte: 30 aprile 1945. La storia è fatta di destini. La Brigata Pasubio, parte integrante dei reparti della sesta Brigata Matteotti, decise la morte dei due attori. L’accusa, al pari di criminali di guerra, era quella di aver inflitto torture e sevizie a detenuti politici. Così si legge nel verbale.
È difficile, a distanza di anni epoche stagioni, poter o dover guardare con visione critica a fatti del genere. Tuttavia, da questa storia tragica è stato tratto un film. Una vicenda che resta nelle viscere di una Nazione. Il loro ultimo film è stato Fatto di cronaca, risalente al 1944, per la regia di Piero Ballerini. E fu proprio un fatto di cronaca la loro tragica fine.
Si erano conosciuti sul set cinematografico e i loro film avevano lasciato una traccia indelebile. Erano gli anni in cui Osvaldo Valenti interpretava Mille lire al mese. Nel 1940 girarono insieme La corona di ferro di Alessandro Blasetti. Nel cast un gruppo di attori che hanno fatto la storia del cinema italiano: Gino Cervi, Elisa Cegani, Rina Morelli, Massimo Girotti, Paolo Stoppa. Al di là della questione cinematografica, al di là di tutto questo, alla fine cosa resta? Cosa ci lascia questa tragedia?
Una storia non scritta con la verità. Una storia che si vuole dimenticare in un orizzonte di sangue. Perché questo è un fatto in cui ancora oggi l’ideologia prende il sopravvento. Osvaldo fu divo fino in fondo. La maschera dell’attore. La recita, il teatro. “Bisogna saper morire”, diceva. In ogni morte c’è un destino segnato e ogni destino ha la sua forza. La sua capacità di espressione, di esperienza. Di umanità. Ma dov’è l’umanità in un episodio del genere?
L’uomo dovrebbe essere fatto di pietà… La storia recita sempre una tragedia o recita sempre la tragedia. Bisogna saperla ascoltare e avere il coraggio di non accettarla e di andare oltre. Superare e tentare di afferrare quella visione in cui la menzogna può diventare una verità o può essere letta come tale. A quei tempi imperversava una frase che Mussolini aveva mutuato da Lenin: “Il cinema è l’arte più forte”. Il cinema rappresentava la propaganda.
Ma Osvaldo e Luisa cosa c’entravano in questa “arte forte”? Loro amavano soltanto recitare e, a partire dal 1937 con Cinecittà, diventano il baluardo di un percorso in cui il paesaggio del cinema si fa paesaggio di una esistenza vera e propria. C’è stato patimento nelle loro vite. La malinconia era cucita negli occhi di Luisa Ferida. In quel passaggio dal muto al sonoro nasce il “divismo” e Luisa fu una diva che divenne icona di bellezza. La vita è oltre il mito. La vita è oltre ogni considerazione di esistenze quotidiane, perché o la si vive o ci si lascia vivere dalla vita.
Luisa, amando Osvaldo, amò l’uomo e il cinema. Riuscì ad afferrare il tragico di una esistenza in anni armonici e felici. Dopo il 25 luglio, in anni tragici e agonizzanti, ebbe il coraggio di vivere dentro questa tragedia. I suoi occhi erano espressione vivente e morente della sofferenza di una donna che aveva vissuto il dolore della perdita del figlio Kim a pochi giorni dalla nascita. Che aveva vissuto il dolore di un aborto. Una donna i cui occhi riflettevano il desiderio, stroncato con la morte, di partorire quel figlio tanto atteso concepito con Osvaldo. Un figlio che entrambi desideravano fortemente.
Come si può scaraventare due persone fuori da un camion, abbagliarli con i fari e scaricare il caricatore del mitra sui loro corpi… Via Poliziano. Milano. 30 aprile 1945. Molte volte ho cercato di ricostruire questa storia in termini romanzati, ma è difficile. C’è il sopravvento del dolore che diventa costante e afferra le parole. Afferrare le parole diviene incontro fatale tra vita e letteratura in questo doppio significato in cui la Repubblica di Salò è soltanto un tragico immaginario dove la morte stringe tutto dentro il destino. Alcuni anni dopo un partigiano di nome Marozin disse: “Luisa Ferida non aveva fatto nulla ma era con Osvaldo Valenti. La rivoluzione travolge tutti. Parole di Vero Marozin, ex capo partigiano”
È possibile, dopo anni, ascoltare queste parole? Dopo che la morte ha consumato persino il ricordo e dopo che il ricordo è diventato memoria e travolge storia e destino, travolge vite… Era bella Luisa Ferida. Molto bella. Occhi pungenti. Sguardo profondo. Un viso malinconico e labbra carnose. La sua parola non superava mai il limite. Venne uccisa perché amava troppo Osvaldo Valenti. Tutto ciò ho raccontato nel mio “Luisa portava in una mano una scarpetta di lana” edito da Tabula Fati, Marco Solfanelli. Ritornerò a parlare di Luisa in un mio prossimo libro tracciando il legame tra la vita della Ferida e di Valenti e il cinema tra gli anni 1940 e 1945.