di Gjergj Meta
Vescovo di Rreshen (Albania)
Non ho potuto non accostare le lacrime di Papa Francesco in piazza di Spagna, mentre ai piedi dell’Immacolata implorava il dono della pace per l’Ucraina, alle lacrime di Gesù su Gerusalemme, Città della pace. In quelle lacrime c’erano tanta amarezza e dispiacere per le sofferenze degli ucraini. Ho avvertito in un primo momento qualcosa come impotenza e fragilità di un uomo che ha solo la preghiera di fronte a chi ha armi e potere.
Ma allo stesso tempo lì, in quell’attimo non controllabile dal Papa, c’era anche qualcosa in più di un semplice pianto. Quelle del Papa erano lacrime invocanti, lacrime oranti, quasi mendicanti, che raccoglievano in un istante, come in un otre, e le versavano dai suoi occhi, le lacrime di tanti uomini e donne che stanno vivendo il dramma della guerra, della perdita dei loro cari e soprattutto della perdita di una vita serena e dignitosa.
Il Papa, davanti alle telecamere, rappresentava una umanità provata dal male, che noi uomini infliggiamo gli uni agli altri, ma allo stesso tempo era un’umanità invocante e orante e perciò sperante. Era un atto di intercessione fatto di lacrime per tutta l’umanità. In quel pianto c’era sì tutta l’umanità che geme e soffre ogni volta che ci facciamo guerra e ci facciamo del male a vicenda.
Tempi difficili sicuramente per tutti. Non sappiamo spesso che piega prenderanno sia nel mondo che nella Chiesa. Quando ecco quelle lacrime invocanti del Papa ci ricordano ancora che la dimensione dell’interiorità è quella che ci salverà, poiché attraverso la discesa nell’intimo di noi stessi possiamo scorgere la bellezza, nonostante la bruttezza del male; possiamo scorgere i colori della speranza invece del grigio della disperazione seminata dall’odio e dall’arroganza dei potenti. Sono gesti che ci indicano una direzione.
Era successo un’altra volta, in piazza San Pietro, vuota per la pandemia. Un’immagine potente che ci ha commossi tutti, nei più disparati luoghi della Terra, mentre guardavamo con gli occhi puntati sulla televisione Questi segni sono destinati a rimanere nell’immaginario dell’umanità e soprattutto dei cristiani, come quelli di Francesco d’Assisi, di madre Teresa o di Giovanni Paolo ii, o come quello della Parola intronizzata all’apertura del concilio Vaticano ii. Sono segni che colpiscono più di ogni parola o discorso. E più ancora di tanta diplomazia e “lobby” internazionali.
L’umanità di oggi, frutto spesso della mentalità scientifica, mentalità per tratti arrogante e quasi totalizzante, ha bisogno, come la terra arida dell’acqua, di segni che ricordano all’uomo qualcosa oltre il calcolo e la misurazione; che gli ricordano appunto la trascendenza o, se vogliamo dirla con il linguaggio della fenomenologia, il mondo della vita, che sta al di là di ciò che è raggiungibile dai nostri soli sforzi e dalla sola nostra ragione.
Ai piedi della Madre Immacolata Papa Francesco ci consegna la potente e allo stesso tempo fragile immagine delle lacrime. Davanti a chi altra se non a Colei che accoglie la volontà di Dio da umile serva, cioè da fragile donna, da donna della terra che risponde al cielo: Fiat! Ancora oggi possiamo imparare la grandezza della fragilità orante che diventa potenza di Dio. Questo ci insegna la Madre e questo ci insegna Papa Francesco davanti a Lei in preghiera.
E questo ci insegna il Natale del Dio fatto uomo, sceso sulla terra e diventato fragile, per riconciliare e dimostrare la via dell’essere uomo autentico.
di Gjergj Meta
Vescovo di Rreshen (Albania)/Osservatore Romano