Di Pierfranco Bruni
Se dovessi raccontare Franz Kafka nella mia volontà di scrivere un libro sul processare il castello attraversando i sogni e la metamorfosi forse farei una cosa non giusta. Ma cosa è la giustizia in Franz?
Le lettere ai suoi amori alle sue donne e al padre sono forse un dominio di sabotaggio alla civiltà dell’enigma?
Ma Kafka è forse ciò che si legge in un vissuto non trasparente andando al di là del bene e del male. Ma è vero che tutto ciò che è profondo ama la maschera?
C’è di mezzo il Nietzsche della Salomè. È indiscutibile.
Gli appunti chei scivolano tra le dita hanno in odore di anni passati e sono visibili nelle pagine ingiallite dei libri di Franz studiati a venti anni. Kafka resta sempre quello. Ovvero quello dei sogni: “Lo scrivere un’autobiografia sarebbe una gran gioia perché procederebbe con un tanta facilità come lo scriver sogni”.
È una annotazione di Franz del 16 dicembre 1911. Mi appartiene. Come mi appartiene il tocco di una mano sulla porta di casa e una voce che dice: Lei è in arresto. Il paradosso dell’assurdo. È così entrato dentro le mie viscere il Franz della irrealtà che mi rende tutto non solo surreale ma semplicemente antistorico. In fondo il sogno non ha alcuna empatica suggestione con la storia. Perché tutto si inventa o si immagina o si trascrive dalla notte profonda che non ha incontrato il chiaro.
Kafka deve sconfiggere la ragione e si costruisce un castello. Deve superare il reale e si destrutturalizza nei fantasmi di un processo. Vorrebbe bruciare la verità e si trasforma usando il sistema onirico della metamorfosi. E racconta le colonie della penitenza e ciò che sarà Orwell. Una fattoria in cui gli stessi animale diventano l’occhio magico di un grande fratello.
Mi sono immerso in Kafka sapendo di ricostruirmi in una nuova vita in cui il sogno appunto deve essere tutto. In una lettera a Felice del 22/23 gennaio 1913 dirà: “Certo non dormirò, non potrò che sognare”. Ma è metafisica del dubbio Franz. Eccolo in una lettera a Milena del 14 settembre del 1920:
“Ripensai chi ero, nei tuoi occhi non lessi più alcuna allusione, provai il terrore in sogno (di vivere in qualche luogo che non era il mio, come se fossi in casa mia), questo terrore lo provai realmente, dovetti ritornare nel buio”.
Il dubbio che si inoltra in una metafisica in cui l’uomo è personaggio antropologico che respira la rivolta verso se stesso? Certamente sì. Cammino ancora tra le sue e le mie pagine. Mi rendo conto che il tempo di una autobiografica percezione è una distesa vagante tra l’oblio e la ricordanza. Kafka ha sognato nelle sue notti i fantasmi del giorno. Siamo messi alla prova. Scrivere ha sempre un senso? Lo scrittore è sempre un libro di frammenti incompiuti. Infondo Il Kafka che sconfigge la ragione resta il mio Franz.