di Stefania Romito
Sulle sponde della Magna Grecia è un prezioso ed encomiabile testo, risultato di un lavoro composito durato anni, che rende omaggio ad alcune tra le più importanti figure di intellettuali che hanno vissuto la città di Taranto come geografia dell’anima.
Il titolo originario, Sulle rive di Taranto, è stato translato in un significante più ampio che conduce alla grecità. Grecia, la culla della civiltà intesa come capacità di rappresentare, attraverso l’estetica della parola, l’immanenza umana nell’universalità del sentire. Illustri esponenti di una letteratura che trae il suo respiro nella visione metafisica dell’esistenza hanno avvertito l’esigenza di sottolineare l’importanza della grecità nel linguaggio lirico. Tra questi vanno ricordati Salvatore Quasimodo e Francesco Grisi. Pierfranco Bruni con questo libro (edito da Passerino Editore, coautrice Marilena Cavallo, curatela di Rosaria Scialpi), dimostra di accogliere il testimone imprimendo un considerevole solco nel prestigioso tracciato.
Una miscellanea di analitici approfondimenti che ripercorrono lo pneuma vitale (in greco πνεῦμα) di questi poeti che hanno cantato il mito, l’essenzialità di una terra che si lega ineluttabilmente alle radici della cultura occidentale mediante il rimando alla cultura greca.
Un documento che non vuole essere un “rimembrare” e un “raccontare” la poesia meridionale intesa come un nucleo distinto e circoscritto all’interno di una limitata territorialità. Come si legge nel libro: «Non esiste una letteratura locale. Esiste, invece, una letteratura di autori che vivono nella propria terra. Oppure esiste una letteratura che racconta, ora con motivi lirici ora con motivi realisti, l’appartenenza ad una terra».
Quindi un voler accogliere in sé la missione di farsi portavoce dell’universalità dell’essere poeti in un canto lirico che è espressione di un ritorno all’origine mediante l’attraversamento del percorso di nascita – vita – morte, nell’ottica nicciana dell’eterno ritorno del sempre uguale. Nel canto di Carrieri, Pierri, Spagnoletti, Fornaro, Scotellaro, Sinisgalli e Bodini si vive un atavico desiderio di circolarità che si manifesta con la centripeta forza di un nostalgico ritorno alla propria infanzia: «I poeti si portano dentro le allegorie dei luoghi, i quali non vengono mai sepolti ma recitati sulle onde di un vento che raccoglie nostalgie».
Nostalgia – infanzia – paese. Questo il suggestivo rapporto che ritroviamo in Scotellaro, Pierri e Sinisgalli connotati da una matrice meridionale che assume valenza universale. Il rimando a Pavese è immediato. Pavese il cui suicidio turbò molto Pierri che rappresentò l’accettazione del dionisiaco nel voler trapassare il dolore per superarlo. Come si legge nel libro: «Di giorno in giorno verrà la morte e il dolore occuperà il tempo. La poesia può essere una salvezza».
La trasformazione che da una condizione di sopportazione esistenziale conduce al diventare “leone”, dopo aver attraversato le problematicità del reale, si manifesta nell’uscire dai confini limitanti della propria terra per poter combattere il “drago”. Un ritornare con la mente (o anche con il corpo) alle proprie origini per ritrovarsi fanciulli, perché solo il “fanciullo” custodisce in sé la volontà di potenza, il seme della creazione. Come ricorda Bruni, così scrive Fornaro: “…non si finisce mai di morire e di rinascere col nuovo giorno fino all’ultimo giorno”.
Ciò che vuole mettere in luce questo libro è proprio la dimensione creativa dell’oltreuomo che si esplica mediante un ritorno alla propria condizione primordiale. La genialità creativa intesa come capacità di creazione immaginifica attraverso immagini, parole, di quello che è in fondo allo spirito, di quello che solo pochi uomini riescono a esternare mediante il linguaggio della poesia. Ed è questa sensibilità estetica, fortemente connotata dalle radici greche della Magna Grecia, da un mare che fa da “ponte” tra Occidente e Oriente, da questa miscellanea di culture, a rappresentare l’esclusività dell’indagine poetico-letteraria di questo testo.
Ma sulle sponde del mare di Taranto si respira anche il vento della Calabria. Una Calabria che si vive nella figura di Francesco Grisi e nel suo unire la città di Grottaglie a un mito che affonda le radici nella cultura magnogreca. Grottaglie che viene attraversata da Selvaggi il quale la paragona all’intreccio labirintico della Ortese nel suo Il mare non bagna Napoli: «Mi sembra di rileggere il romanzo della Ortese quando tratteggia la sua Napoli. Entrare nel ventre di una città è penetrare i suoi labirinti». Una Grottaglie che rievoca a Selvaggi anche il mondo sommerso nelle memorie di Corrado Alvaro.
Un libro che superando i particolarismi regionali, spingendosi oltre i provincialismi, non unisce soltanto Nord e Sud (con i suoi collegamenti a Dante e a Pavese) ma la poesia tout court mediante un Mediterraneo che diviene motore propulsore e principio ispiratore, non solo di questi poeti nati, vissuti e legati alla città di Taranto, ma dell’intera storia della tradizione lirica.