di Carlo Bollino
Per infangare l’immagine dell’Albania alcuni giornalisti italiani sono specialisti. Li ricordo sin dai primi anni ’90 quando gli albanesi venivano descritti in Italia solo come un popolo straccione che esportava puttane, ladri e spacciatori. Per anni stampa e televisione italiana hanno coltivato una campagna di disprezzo verso gli albanesi che non aveva origini razziste o politiche, ma semplice inconsapevolezza, superficialità e molto spesso incapacità professionale. Dal fango di 30 anni fa si è precipitati nell’apologia degli ultimi anni, in cui l’Albania è stata mostrata solo come una specie di isola felice in cui si fanno vacanze gratis e si mangiano spaghetti con l’aragosta a 5 euro. Entrambe le immagini sono false, entrambe figlie di facili luoghi comuni.
Col ”taglia e cuci” del montaggio televisivo, un giornalista può fare dire a Edi Rama ”evviva Sali Berisha” e a Sali Berisha può far dire ”evviva Edi Rama” senza che il telespettatore si accorga dell’inganno. Allo stesso modo si può mostrare un paese splendido oppure lo si può far apparire orribile e corrotto. Ecco perchè quando si fa la nostra professione bisogna avere innanzitutto la volontà di non mentire.
Nessuno pretende la verità, che quella è davvero difficile da scovare, ma l’onestà intellettuale serve. Anzi, è indispensabile.
L’ultima puntata di Reportsu Rai 3 dedicata all’Albania è un classico esempio di questo giornalismo manipolatore all’italiana. Ormai ci siamo abituati. L’inviato arriva in Albania con la sua tesi precostituita in testa, resta tre giorni, raccoglie il bottino di calunnie funzionali alla sua teoria, scarta eventuali voci contro, e poi torna compiaciuto a casa dove confeziona il reportage che conferma la sua idea. Sono 30 anni che denuncio questo fenomeno: lo facevo quando era al potere Sali Berisha, lo ripeto oggi che al governo c’è Edi Rama. Non sono i danni al potere politico che mi preoccupano, è il fango sull’immagine di questo paese che mi fa ribellare, e non solo perché oggi è anche il mio paese.
La televisione ha qualcosa di magico e spaventoso: quando ti rivedi nello schermo non ti riconosci quasi mai, e persino quando ascolti le tue parole sembra che in realtà a parlare sia qualcun’altro che ti sta dando ragione. Accade nel bene come nel male. E’ l’effetto che il reportage di Report confezionato col ”taglia e cuci” sta producendo sugli albanesi che hanno collaborato a quella ”inchiesta”. Persino il capogruppo democratico Gazmend Bardhi (che è tra i più moderati in mezzo agli inquisitori prodotti da Sali Berisha), incredilmente ha trovato conferma alle sue teorie accusatorie contro Olsi Rama solo perchè Report ha ritrasmesso i documenti che lui stesso aveva pubblicato per primo! .
Praticamente l’intero reportage di Report è stato un ”taglia e cuci” di testimonianze contro il governo ascoltate già mille volte in Albania, eppure il fatto che le stesse voci siano state trasmesse dalla Rai con la traduzione in lingua italiana, sono sembrate nuove e inedite agli stessi che le hanno pronunciate. E oggi, proprio come accadde con la ”Bild” che ripubblicò in tedesco le intercettazioni commissionate da Sali Berisha al suo procuratore Hajdarmataj e diffuse in albanese dal suo partito, i berishani urlano compiaciuti: ”Ecco avete visto? Lo dicono pure gli italiani”. Il fatto che siano sempre loro a parlare fingono di non capirlo. O forse non lo capiscono davvero.
Intervistare solo gli accusati senza ascoltare anche la versione di chi li indaga, è come ascoltare solo la voce dell’accusatore senza dare spazio alla difesa. Ascoltare le due versioni di un fatto è la regola elementare del giornalismo onesto. In Italia in genere la si rispetta, nel timore di subire le querele, ma quando gli inviati sbarcano in Albania le principale legge della nostra professione viene calpestata. Da sempre. E così se per dimostrare il proprio teorema serve mostrare come vittime l’ex poliziotto Dritan Zagani, l’ex procuratore Besim Hajdarmataj, l’ex imprenditore Francesco Becchetti o l’ex presidente Sali Berisha, si intervistano solo loro. Se invece serve mostrare come colpevoli Olsi Rama o Engjell Agaci, si da voce solo a chi li accusa. Così ha fatto Report. Funziona, ma è solo mezzo giornalismo. E l’altra metà?
Nel caso di Engjell Agaci c’è stata addirittura una gravissima omissione: a differenza di quanto afferma il giornalista italiano infatti (e come ho potuto verificare di persona), il Segretario generale del consiglio dei ministri (presentato nel teorema dell’inchiesta italiana come una specie di ombra criminale che si è intrufolata clandestinamente nei rapporti tra Italia e Albania per favorire il protocollo sugli emigranti, mentre invece svolgeva solo il suo dovere istituzionale nel suo ruolo ufficiale), ha risposto via email a tutte le domande nei tempi richiesti dalla trasmissione (”entro il 5 aprile”). Solo che ”Report” non le ha mandate in onda.
Nel ”taglia e cuci” all’italiana con cui è stata preparata l’inchiesta, colpisce il passaggio in cui Engjell Agaci viene mostrato come un mediatore occulto che mette in contatto il generale della Guardia di Finanza Fabrizio Lisi (ex direttore generale dell’Interpol) con Artur Shehu, un boss albanese accusato di traffici criminali che da anni è rifugiato negli Stati Uniti per non essere ucciso a Valona. Pur avendoli in mano, però, il giornalista italiano non ha mostrato i documenti di quell’accordo. Perché?
Perchè altrimenti avrebbe dovuto raccontare anche l’altra faccia della storia. E la storia completa è che Engjell Agaci aveva ricevuto un incarico dal tribunale di Trieste per cercare di recuperare i certificati di proprietà su circa 11.000 metri quadrati di terre della famiglia dell’albanese Salvatore Eftimiadhi espropriate dal regime comunista nel 1944 e poi finite nel calderone infernale delle ex proprietà albanesi. Fabrizio Lisi non ha ricevuto in dono niente. E’ però il presidente della fondazione senza scopo di lucro ”Luca dhe Marco Eftimiadhi” (di cui Salvatore era discendente diretto) e della quale fanno parte altri tre italiani.
Secondo il suo statuto, la fondazione intendeva destinare le terre di quella eredità eventualmente recuperate, ad opere di beneficienza. Pare che Artur Shehu, che risultava intestatario tra altre centinaia di ettari di costa anche delle stesse terre rivendicate dalla famiglia Eftimiadhi, abbia deciso di donare alla fondazione 30.000 metri quadrati nella zona di Zvernec e otto piccoli appartamenti a Uji Ftofte, sempre a Valona. Perchè lo abbia fatto resta poco chiaro. L’atto di donazione è stato firmato da Alketa Ylli come amministratrice della fondazione e da Pellumb Petritaj come persona autorizzata da Artur Shehu. Quindi il generale Lisi e Artur Shehu (come Report sa bene ma non ha detto) non si sono mai incontrati. In ogni caso questo atto non può riguardare Engjell Agaci che da quella storia non ha mai beneficiato nulla (nè su quel terreno è mai stato costruito nulla).
Ma a Report è bastato insinuare il sospetto, non scoprire la verità. Del resto lanciare ombre su Engjell Agaci (e su immaginari legami tra il governo e il crimine) ricordando che aveva difeso anche trafficanti albanesi di droga quando era un conosciuto avvocato penalista albanese in Italia, senza precisare che dal 2013 Agaci non svolge più quella professione, è malizioso e sleale. Funziona per sostenere il teorema ma non è giornalismo.
Non meno faziosa è stata la la testimonianza di Francesco Mandoi, ex procuratore antimafia, che io conosco da 45 anni e sul quale perciò mi asterrò dall’esprimere giudizi personali. Sarei tuttavia curioso di ascoltare il resto delle oltre 4 ore di intervista concessa da Mandoi (dalle quali astutamente Report ha estratto solo i 3 minuti funzionali alla sua teoria). Trovo incredibile che pur conoscendo a fondo la riforma della giustizia albanese, Mandoi non abbia saputo spiegare neppure il corretto funzionamento del ”vetting” sui magistrati corrotti, lasciando persino che il giornalista lo confondesse con Spak, che è l’unica procura che finalmente sta indagando sulla corruzione colpendo finalmente senza guardare in faccia a nessuno.
Tanto per chiarire: per intercettare un qualunque magistrato (che sia ordinario o di Spak) la decisione (come in Italia) spetta sempre ad un giudice, e mai ad un poliziotto, come invece Report e Mandoi hanno affermato. E col ”vetting” poi (che sta finalmente ripulendo la giustizia albanese controllando i patrimoni di giudici e procuratori) la polizia non c’entra assolutamente niente. Ma mi piacerebbe capire soprattutto perché il giornalista italiano ha ”dimenticato” di precisare che Mandoi ha ormai tolto la toga del magistrato e da un paio di anni è militante attivo del ”Movimento 5 Stelle”, forza politica apertamente schierata contro il governo italiano firmatario dell’accordo con l’Albania.
Insomma Mandoi ormai è in politica e quindi parla anche per scopi politici senza necessariamente l’obiettività e l’indipendenza che doveva rispettare quando parlava per conto della Giustizia. Resta il punto che un ex procuratore serio, così come un giornalista, quando accusano qualcuno devono farlo con le prove e non con le proprie sensazioni. Almeno se vogliono rimanere seri.
Io non credo che ci fosse nulla di personale nell’attacco fazioso rivolto dal programma ”Report” contro l’immagine dell’Albania. Lo scopo era solo di politica interna italiana, come credo abbiano capito tutti. Colpire Edi Rama (lanciando insinuazioni sui suoi familiari, sui suoi collaboratori e sulla situazione del suo paese), questa volta aveva come unica ragione quella di colpire il presidente del consiglio Giorgia Meloni che con Edi Rama ha sottoscritto un accordo sugli immigrati che non piace a Sali Berisha ma neppure all’opposizione italiana (di cui Report è una delle voci mediatiche).
Se poi questo infanga l’immagine di un intero paese e di un intero popolo, ad alcuni giornalisti italiani come sappiamo non importa. Mostrare un governo albanese corrotto e addirittura ”condizionato” dalla criminalità organizzata, doveva provare a dimostrare che Giorgia Meloni fa accordi con i politici corrotti e con gli emissari del crimine. Tutto qui. In questo senso la missione di Report e quella di Sali Berisha e dei suoi uomini, sono coincise.
Quindi non bisogna stupirsi se Rai Tre per 50 minuti è apparsa come Syri tv, l’emittente della famiglia Berisha. La cosa comica è che da due giorni Syri ritrasmette a sua volta ”Rai Tre” come fosse qualcosa di nuovo e di sorpendente, in un corto circuito informativo esilarante, senza accorgersi che sta solo ritrasmettendo per l’ennesima volta le sue stesse intramontabili bugie. In Albania questo tipo di informazione politica, primitiva e volgare, viene praticata ogni giorno dai media militanti. Il problema è quando ricominciano a farlo anche i giornalisti in Italia. In 30 anni l’Albania è cambiata tanto, il giornalismo italiano non sembra cambiato per niente.