Di Chiara Ortuso
Cosa significa fare l’esperienza dell’eternità, cosa vuol dire essere eterni? Se morire, spinozianamente parlando, vorrebbe esemplificare ciò che dall’esterno spinge le parti costitutive dell’umano ad abbandonare il rapporto che identifica l’individualità per abbracciarne un altro, scomponendo le particelle corporee per transitare in una dimensione di sovratemporalità, entrare nella sfera dell’eternità indicherebbe, allora propriamente, riconoscersi entro il tutto di una sostanza nella quale ciò che diciamo “prima” e quello che chiamiamo “dopo” si annullano, vivendo come essenza tra le essenze.
E’ questa la dimensione ultraterrena che pare emergere dall’ultimo romanzo capolavoro di Maria Teresa Liuzzo, Piogge verdi di smeraldi (A.G.A.R. editrice, Reggio Calabria, gennaio 2024, 273 pg), il quale accompagna il lettore in un universo capace di trasfigurare la morte della protagonista in un’esistenza che, pur apparendo alle volte vita mancata, si consuma in esperienze ultime di carattere infinito. Quell’unione panteistica che Giordano Bruno identificava in una natura divina, assumente il volto di causa immanente e trascendente, quell’eternità in grado di coesistere con un corpo che si mostra nella sua “durata” pur fluttuando tra stati coscienziali i quali fanno della memoria, in fondo, l’oblio del vissuto.
Così, mediante una prosa rinvigorita ed impreziosita da passi poetici spesso espressi in vernacolo, la Liuzzo ci mostra, come Angelo Novus di benjamiana memoria, la turbinosa voragine di un’umanità dispersa nelle sue più intime piaghe di meschinità e miseria, sommergendo la storia sotto “sguardi sulle macerie” e “rovine in accumulo ed in crescita verso il cielo”. Eppure la bellezza di un’anima riluce attraverso la narrazione delle sue esperienze sensibili che riecheggiano di viaggi onirici e visioni di bellezza.
Ed è questa dimensione, identificata in ciò che l’autrice definisce in fondo “anatomia di un destino”, il quale appare inzuppato nelle tele di amorosa ingenuità e prossimità, ad inverare un’esistenza capace, nonostante tutto, di godere della grandiosa armonia di un creato all’interno del quale, come sosteneva il grande scrittore russo Fedor Dostoevskij, “non si può non essere felici, passando accanto ad un albero”.
In tale maniera l’approssimarsi alla semplicità di un fenomeno che acquista la sembianza della profondità, finanche, “del non essere”, costituisce quel flusso coscienziale il quale “illumina l’umanità tutta, dando significato ad ogni momento, ad ogni respiro”. Ed è una Luce che, come sottolinea l’autrice, risulta essere una parte medesima del “nucleo essenziale dell’Essere”, “consapevolezza del tutto in ogni frammento di materia”.
La scrittura come segno indelebile di un autore che, come direbbe Derridà, si fa traccia, manifestando la sua assenza nella presenza di un linguaggio che descrive la commovente narrazione di un dolore il quale si fa mondo. La fragilità che si incontra con lo spettro di un reale illusorio ed infingardo.
E tuttavia l’ombra di un sorriso appare come quell’arcobaleno volto a raggiungere quella meraviglia di aristotelica memoria che risolleva una forma sostanziale, qual è l’anima, concretizzandosi nel fuoco di una melodia di straordinaria dolcezza. Potenza della poesia, di una trans-estetica finalizzata a restituire al concetto stesso di arte la sua poliedrica e prospettica linea di colore nel bel mezzo dello sfumare di una soggettività, la quale sembra perdere sempre più i connotati di esistenza.
Al contrario la prosa poetica della Liuzzo insegna quanto la sfera letteraria possa ancora restituire quella folgore di eternità che, come si sosteneva inizialmente, sembrerebbe l’unica filosofia abile a sopravvivere nel contesto di una morte trafugante e transeunte. Una fine caduca che avvolge l’umano nei suoi spettri di performatività e sonnolenza. Così l’oscurità della determinatezza cede il posto ad un raggio di eclatante chiarezza.
La certezza di qualcosa che sopravvive alla vita stessa, conservando la vera essenza di ciò che ciascuna individualità conserva come segreto recondito nelle asperità della sua forza. Nella testimonianza di un’impronta lasciata sulla terraferma da parte di una monade solitaria e persa qual è l’individuo umano. Nella speranza di un furente ed imminente incontro con l’immagine erratica di un Essere sub specie aeternitatis.
Chiara Ortuso