DI MARIA TERESA LIUZZO – FONDATRICE E DIRETTRICE DELLA RIVISTA DI CULTURA INTERNAZIONALE ‘‘LE MUSE’’ (ITALIA)
La scrittura di Astrit Lulushi ha catturato il mio interesse per la mole di lavoro qualitativo che solo rari scrittori possono permettersi. La sua firma, a mio parere, occupa il primo posto fra gli eletti. I temi trattati sono di natura universale, parlano di amore, di storia e di contemplazione erotica nella sua celestiale bellezza: ne è venuto fuori un capolavoro di Scrittura preziosa e di elegante contemplazione che contrasta in uno scenario moderno.
L’Autore cerca una soluzione ai problemi esistenziali. Il suo linguaggio, contenuto e mai scurrile, è sottoposto a tensioni quando assume toni drammatici, pur velati da una struggente dolcezza che è musica e preghiera. La sua biografia intima attraversa un progresso formale di carattere familiare e sentimentale, che va dal collettivo all’oggettivo. Scrittura coerente che va dalla gioia fugace, alle delusioni umane e della Storia che si presenta impietosa ai nostri occhi. Nella tristezza del suo sguardo (di scrittore) la verità diventa parola che condanna la Storia nella sua tragica, sconvolgente crudeltà. Il suo sorriso è assente o poco accennato e diventa fluido come quello delle ondine, creature acquatiche dai corpi che trascendono il limite del visibile attraverso il linguaggio della complicità che accarezza le anime elette e / ‘‘mentre il cuore sospirava / s’apriva la luna sul tuo volto. / Eri un sogno di colore e di bellezza’’.
La sua eleganza non è ostentazione, esibizionismo: Astrit Lulushi è discreto nella sua semplicità silenziosa. Ha rispetto e buon senso, ha ‘‘savoir faire’’. Kail (Agostino Degas): ‘‘Appartenersi è un legame superiore che sfida i limiti del tempo e di ogni distanza. Spiritualità delle anime che si incontrano per sempre… e neppure la morte potrà separare’’.
La sua scrittura è sempre costante, raffinata eleganza dove l’idioma della coscienza rimane sconosciuto. Espressione letteraria profonda celata nella forza della parola e sta a noi lettori ritrovare come rabdomanti l’acqua nel deserto. La vita dell’Autore è simile a quella di un bambino buttato nel fuoco che a furia di ardere si è amalgamato con lui ed ha imparato ad ‘‘amarlo’’ come un testo sacro.
Da quelle fiamme nascono letture che durano una sola notte, altre per sempre, come le rose nere che sbocciano d’inverno nella loro impressionante bellezza, ma non riesci a sapere se dal loro splendore arrivano parole d’amore o di morte. Il suo pensiero è nella melodia del vento e nel rumore dell’acqua. A proposito della nota critica di Faruk Myrtaj sulla vita incredibile di Astrit Lulushi, non solo il suo modo di vivere, ma tutta la vita di questo singolare scrittore ha dell’incredibile.
Un’esistenza vissuta tra avventura e tragedia. Basti pensare che è entrato in acqua a piedi nudi, attraversando la sabbia come un anonimo bagnante fino a spingersi al largo, proprio come fece San Francesco di Paola – patrono della Calabria – quando attraversò il mare sul proprio mantello. Fu un trauma per un ragazzo, poco più che ventenne, interrompere gli studi per trovarsi catapultato in un paese sconosciuto, ignorando la lingua del luogo in cui era approdato.
Forse, senza volerlo, mi ricorda la vita di ‘‘Riccardo Cuor di Leone’’, il dolore che macerava nel suo petto fu sconfitto dalla volontà di ‘‘continuare a sognare’’, di superare qualunque intemperia per realizzare il suo sogno senza voltarsi indietro. In poco tempo sacrificò se stesso, imparò la lingua straniera, studiò con profitto. Il suo messaggio fu accolto positivamente dai diseredati, emarginati, soli, sconfitti, esiliati, patrioti che furono il suo grande pubblico. Divenne ‘‘la Voce dell’America’’.
Ma prima dello scrittore c’è la maestosità dell’Uomo vero, giusto, fedele ai suoi principi, colto, generoso. L’uomo dei fatti e non delle parole. Tutto questo non poteva non colpire come una spada in petto me come persona innanzitutto e secondariamente come direttrice di una rivista di cultura internazionale ‘‘Le Muse’’, edita da 24 anni e scopritrice di talenti, che ha visto pubblicate sulle sue pagine la crème mitteleuropea e mondiale di poeti scrittori studiosi, premi Nobel e candidati al medesimo premio.
Ho visto in Astrit Lulushi un corpo crocefisso, riconosciuto in lui una psiche minata- perché solo chi ha vissuto il dolore e se lo porta dentro è in grado di riconoscere quello degli altri. La sua creatività sbalorditiva è accantonata dagli ‘‘sciacalli’’ del momento perché chi è migliore degli altri rappresenta sempre un pericolo per ‘‘miserabili’’ e disonesti.
Ma la verità è come l’amore che nessuno può ingabbiare, così come la voce potente dell’Autore non solo in Albania ma nel mondo. Un detto recita che l’erba del vicino è sempre più verde. Le persone acculturate sono scomode perché non si lasciano manipolare. Così i dannati dall’invidia fingono persino di festeggiare i morti per fare dispetto ai vivi: incredibile ma vero. Penalizzano le eccellenze per dare credito alla più becera sudditanza che si prostra come un pellegrino ai loro piedi.
Del resto non fu proprio Caino a uccidere Abele per gelosia? E i fratelli di Giuseppe a venderlo come schiavo ai mercanti portando la sua veste insanguinata al padre, dicendo che era stato sbranato da una belva? Gli interessi primari di Astrit Lulushi sono la pace, la difesa della natura, il benessere dell’umanità. La sua signorilità e la sua riservatezza sono state accolte come una rivalsa, non con gli onori che avrebbe meritato.
La sua scrittura è nobile e sanguigna e si riconosce a mille miglia il suo DNA, la sua costanza, la sua autorità, pazienza, ricerca, memoria, qualità che ne fanno un unicum nel panorama internazionale. Il suo capolavoro enciclopedico dovrebbe essere valorizzato soprattutto nel suo paese d’origine, ovvero l’Albania. Dovrebbe essere osannato, difeso e protetto come un bene prezioso, come si fa con i monumenti – nel nostro caso ‘‘Umano’’– eletto Patrimonio dell’Unesco.
Si rimane increduli che le sue performance non abbiano ricevuti consensi dai critici e dai cultori dell’arte. Mi ricorda il grande poeta del 1900 Lorenzo Calogero – morto suicida – il cui valore fu riconosciuto dopo la sua morte dallo stesso suo “rivale” Eugenio Montale che ebbe a dire se ciò fosse accaduto (ossia se Calogero fosse stato insignito del Nobel) li avrebbe “sotterrati” tutti. Si dice che la Storia si ripete – e di questo sono certa – forse perché, come William Faulkner (1897-1962), in epoca borghese e moderna la teoria diventava dramma.
Elementi simili li troviamo in Hemingway, in Caldwell e in Scott-Fitzgerald (come presenza del tragico). Scrittore bellico, scrittore della super tecnologia nucleare, fino ai viaggi spaziali. Al di là del modo di esprimersi dell’autore, pervade la compressione notevolissima che va oltre il detto conosciuto, in quanto separato dal tempo concreto della vita (il dolore mai sanato per la perdita del suo adorato figlio) deceduto all’età di trentadue anni. Astrit Lulushi, come Aldo Palazzeschi, diffida dei toni e dei quartieri alti, non essendo un cattedratico non ama certe istituzioni. La ‘‘strada del mare’’ è stata la sua grande maestra. Ha voluto vedere coi propri occhi come si vive veramente, ha capito la gente che deponeva le sue confidenze, dialogando con loro. Ha scoperto la parte ‘‘nascosta’’ del popolo, le anomalie, il tutto da vicino sotto molteplici aspetti e liberi da ogni tentazione retorica.
Sappiamo che la verità lava il nostro animo dall’inganno e dall’astio e la scrittura è lo scrivere è un buon alleato, un’ancora di salvezza. Nei suoi versi troviamo una coscienza che sanguina e un bene che si affaccia timoroso e scivola nello sguardo dell’interlocutore come il sole quando sprofonda nel mare. Il suo pensiero non teme il parafulmine, il suo subconscio esplode e si fa magma nel cuore e nell’anima.
La sua voce si impone e la parola sprofonda nei versi con la sua tragica dolorosa solitudine, mentre l’ultima stella tramonta in una pennellata di cielo. È come stendere i panni al sole, mentre continua a seminare domande come il miglio. I gesti, i singhiozzi, i dubbi appaiono dove le ansie trovano sbocco nei vari mutamenti che compongono e scompongono ogni suo scritto, dove anche il rimpianto ritrova nuova vita, dopo avere attribuito al suo linguaggio una dimensione classica che deriva dai suoi incontri con la gente che incontra per strada, dal barbiere, dal fornaio.
Ma soprattutto da coloro che erano poveri di parole e di coraggio. La scrittura di Astrit Lulushi non è il linguaggio del potere, oggi arte delle classi dominanti, ma è la voce del cuore e della ragione che interroga le coscienze e la mentalità di coloro che ancora si travestono da lupi e gridano: ‘‘Al lupo’’ che da personaggi da romanzi si riflettono nella realtà geografica e non dell’Autore.
Saranno loro a voltargli le spalle ed accusare lui del contrario. E perché no? Dunque, il grido della verità non è vendetta ma rabbia che si trincera con grande abilità in un ‘‘luogo d’ombra’’ dove il vento trascinerà la pioggia e cancellerà sangue e cenere affinché non possa ripetersi il genocidio della Storia dove non esiste la verità nel momento in cui si sacrifica tutto per il potere.
Per Astrit Lulushi la scrittura è la voce del sangue, è la vita che lui ama e si sente ricambiato, illuminato nel suo significato più autentico. Le sue parole ci insegnano che l’amore egoistico è vedere l’altro come oggetto di sua proprietà e non quello dove lo spirito si manifesta in una scelta libera e consapevole. In alcuni passi che abbiamo letto la sua scrittura si mostra quasi angelica, a volte testarda, altre volte il suo ‘‘viaggio” diventa sofferto e difficoltoso come quello di un viandante senza fissa dimora. Non tutti sanno che la forza motrice del mondo arriva proprio dalla parola.
La vita dell’Autore è stata molto travagliata e quando bussano alla sua memoria le tensioni del ricordo avverte il peso dei suoi dolori vissuti. Quando il silenzio alza muri lui pone le parole sul foglio come pietra su pietra. C’è un tempo luminoso racchiuso nell’anfora del passato e qualche lacrima trattenuta a stento, come la musica di un singhiozzo.
Sono emozioni indescrivibili come il sussurro angelico di una sorgente che ci ricorda gli ‘‘Inni della notte’’ di Novalis. In essi gli elementi si mescolano, si triturano pur nella diversificazione creando persino nel terrore un anello di luce. Lulushi scorge quel moto ininterrotto dove formiche, cicale, calcoli e teorie inconfutabili vengono definiti ‘‘casi’’ in quanto magistralmente manipolati.
E a parlare adesso è la sua coscienza: ‘‘Non posso far risorgere i morti… liberare la natura e la morte dalle mani del potere che con esse ci governa…presagire qui e ora un’altra vita possibile e un’altra morte, è la sola resurrezione che ci interessa’’ (Giorgio Agamben, Requiem per l’Occidente). Siamo sommersi da distopiche visioni di certe élite che emergono dalle squallide scenografie dei loro rituali e festini in ogni singolo potere.
Tutto ciò è negativo e distruttivo per le nuove generazioni e tossico per quelle di oggi. Mode orripilanti creano confusione, tristezza, violenza e depressione. Si vive in un mondo virtuale con sentimenti azzerati. Troviamo elementi che sfilano in quanto convinti che l’apparire è il paese dei balocchi e la somma del tutto. Non hanno consapevolezza di nulla e si lasciano svilire e ridicolizzare come un oggetto, nei vari modi possibili. Tutto ciò lontano dalla ratio, dalla bellezza e dalla sensualità. La creatività è in forte declino, mentre vanno di moda i disturbi dell’umore.
Siamo in presenza di un ‘‘Clown Carnival’’ di Joan Mirò. Un’opera surrealista dove gli elementi reali si trasformano nell’inconscio. Astrit Lulushi conosce la responsabilità della vita, la conosce bene nel momento in cui si è dovuto improvvisare barca e nocchiero e superare il mare della perfidia, fuggire dalla violenza implacabile della sua terra d’origine lottando contro la forza distruttiva dei ‘‘Piranha”.
Lui ama la cultura e ad essa è debitore perché sa che soltanto la cultura ci rende uomini liberi e non prevale l’intrigo al dovere. Anche nel silenzio la sua parola è sempre in gestazione. Sa che il tempo risiede nel creato, che è una bilancia e noi il suo fulcro. Come scrittore autentico conosce la magia della scrittura e il dolorare della sua metamorfosi e non permette al suo equilibrio di spezzarsi. Dai ricordi si snodano terribili visioni.
Ancora, sente la vendemmia dei lamenti, l’odore della polvere da sparo, il grido dei bambini sgozzati come agnelli, i brividi ingoiati dal fango. Vede i ‘‘cobra’’ complottare nei salotti, in riva al mare e i lupi vendere sogni di cemento. Ed io suggerisco usando a prestito una frase di Winston Churchill: ‘‘Mai, mai, mai arrendersi’’.
Maria Teresa Liuzzo