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ASTRT LULUSHI: UN UOMO CHE È NELLA STORIA. TRA L’UMANO E IL DIVINO

DI MARIA TERESA LIUZZO

Sebbene la vita sia tutta un’avventura – o una beffa – se priva d’illusioni, nessuno può pensare di imbottigliare nuvole nel deserto al refrigerio di un’oasi, giacché sarebbe un’impresa impossibile. Ho avuto modo di leggere e apprezzare l’ottimo saggio del Prof. Thanas Gjika sullo scrittore Astrit Lulushi con la nota critica rilasciata da Faruk Myrtaj e mi congratulo con entrambi. I loro giudizi mi hanno piacevolmente sorpresa nel riconoscere l’alto grado di interesse che suscitano l’Autore e le sue Opere, meritevoli di essere lette, vissute e diffuse.

Astrit Lulushi è uno scrittore singolare che si è fatto da sé. Spesso si incontrano o si leggono scrittori, poeti, funzionari, imprenditori che hanno condizioni favorevoli o altri che essendo figli d’arte ereditano (ancora prima di venire al mondo) il marchio già depositato, monopolio delle varie caste che li hanno preceduti.

Sempre attuale appare il detto “nemo propheta in patria”. A questo segue il grido degli invasati che inveiscono, come ambulanti da mercato, su come siano i migliori perché così deve essere. Altri ricoprono cariche di responsabilità non perché siano bravi, ma perché hanno la fortuna dalla loro parte.

La meritocrazia non conosce compromessi, ma ne esiste un’altra di facciata che pensa – o meglio si illude – di meritare la “miscela” che altri per motivi di business, di lucro, di protagonismo hanno eretto a “mercatino dell’usato”, luogo preferito e accessibile ai “Pupari” abituati a tirare i fili delle marionette che amano esibirsi nella loro mediocrità, o forse consapevoli che il “circo” sia l’unica piazza che si adatta alla loro performance.

“Forse perché persino l’onestà va alla deriva di fronte al denaro, il ricco è più corruttibile del povero” (Sergio Bittigi). I temi trattati da Astrit, per la grande portata, possono essere paragonabili a quelli di Kahlil Gibran perché nella sua elegante semplicità e umiltà attacca l’ipocrisia, il malcostume e la corruzione che fa da padrona.

Tutti si improvvisano eruditi, convinti di essere al centro del mondo ma, sprovvisti come sono di umiltà, di sacrificio, di onestà morale e intellettuale hanno dimenticato – nella loro superbia, se mai fossero stati al corrente – che nessuno di noi è separato dalla morte.

La vita frenetica mondana, la politica, l’uso e l’abuso di comodità eccessive a danno degli altri non è che un ornamento di facciata e di breve durata. Ogni frutto nasce, cresce, si riproduce e si estingue. Questo insieme ci ricorda il filosofo Bertrand Russell, cugino del grande poeta Peter Russell, sei volte candidato al Nobel, mio ospite durante il suo soggiorno a Reggio Calabria in cui presentò il mio libro “Apeiron” e entusiasta recensore e tradurre di altre mie opere.

E proprio di ciò mi parlava Peter Russell a proposito del suo illustre cugino e della “Storia della filosofia occidentale”, dove il tutto era incentrato su storia e contemplazione. Questo mio accenno sarà utile a chi non è a conoscenza delle opere di Astrit Lulushi, che ha dimenticato il diritto e il dovere dell’informazione preferendo la corsia più facile: sparare sentenze e gridare: “Non salvate Gesù, liberate Barabba!”.

Astrit Lulushi potrebbe essere paragonato a rari eroi moderni e ai grandi eroi del passato che hanno rischiato la vita per se stessi, la loro famiglia e la loro patria (Albania). Come un moschettiere, il suo motto è “Tutti per uno e uno per tutti”.

La gioventù è fatta di sogni, di imprese, di impulsi. Astrit è stato un giovane leone dal cuore impavido che ha attraversato il mare – che per lui, ancora ragazzo, è stato come per Colombo attraversare l’Oceano. L’istinto della sopravvivenza, non della consapevolezza che si trasformò in disperazione quando la sua giovane vita fu a un passo dalla morte.

A distanza di anni, c’è ancora nella sua bocca il sapore del sale. Chi nasce scrittore eredita un patrimonio di sapere, una matassa d’oro che deve solo sbrogliare per sentire il suono di un arpeggio, ma è anche colui che ha “sangue blu” nelle vene perché pur non possedendo ricchezze materiali ha dignità, amore, passione, misericordia, rabbia contro l’ingiustizia sociale.

Doti che appartengono a lui soltanto, agli uomini veri, e, che nessuna giustizia o potere potranno mai sottrargli. L’Autore ha attraversato l’oceano per ritrovarsi da un giorno all’altro in un Paese straniero dove non conosceva la lingua, estraneo tra gli estranei. Ma, come Mosè, ha raggiunto la “Terra Promessa”.

La sua lingua fu quella universale: la lingua dell’amore. Con enormi sacrifici si è adeguato alla sua nuova vita e identità, portando successivamente con sé tutta la sua famiglia, che lo attendeva senza alcuna certezza di poterlo riabbracciare. Come recita un proverbio calabrese (Italia): “se torni indietro la morte ti porta con se”.

Astrit fu illuminato dalle “Confessioni” di Agostino D’Ippona e non ritornò indietro rischiando la propria vita da temerario. Le parole del Santo fecero sì che lottasse con forza sovrumana sino allo sfinimento, ma non tornò indietro. “Voi cercate una vita in un paese di morti, non è lì. Come potrebbe esserci una vita dove non c’è la vita?” (S. Agostino).

La scrittura di Lulushi non è una caratteristica naturale ma una necessità organica. Ha fame e sete di conoscenza, ritrova la linfa a volte repressa e la parola sanguina come una spada che affonda nella roccia facendolo diventare un pellegrino di Cristo.

Ancora oggi, il nostro Autore trascina con sé il destino mortale del creato. Autodidatta come Benedetto Croce, anch’Egli è una figura solitaria ma con un cuore che pulsa; a volte ci commuove ricordandoci il “Fanciullino” del Pascoli, altre volte ci incanta con i suoi versi forti ma romantici dell’uomo universale.

L’errore, l’astio e l’invidia dei lettori e dei critici è di non avere il coraggio di ammettere che c’è e ci sarà sempre qualcuno più bravo di loro. La storia si ripete, io l’ho vissuta sulla mia pelle: non mi ha distrutta ma resa più forte e consapevole. Questo è uno dei motivi che mi spinge a difendere a fil di spada Astrit Lulushi, un intellettuale puro, uno storico, un letterato, un filosofo secondo la mia coscienza.

Come Dante Alighieri, anche l’Autore andò in esilio e solo così è potuto diventare un grande personaggio. Che piaccia o no ai signori critici o pseudo critici del momento (passato, presente e futuro), le cose stanno così e bisogna prenderne atto. La sua creatività non conosce limiti. È un vulcano in piena attività, come l’Etna che vedo dal mio balcone, come una montagna di fuoco che con i suoi “giochi pirotecnici” passa infine alle sue fumate bianche, uguali a quelle di S. Pietro in Roma quando viene eletto un nuovo Papa.

La potenza della sua scrittura a volte nervosa, altre volte dolce, deriva dalla sua forza sovrumana che ha sperimentato in acqua e che ancora porta con sé. Sono ecchimosi invisibili che dormono nel suo corpo e a volte ritornano in superficie attraverso le ferite della mente. Se c’è qualcuno da privilegiare, lui merita il primo posto.

È ora di smetterla coi pietismi e gli accostamenti a giullari e saltimbanchi che oggi vanno tanto di moda. Nella cultura, il posto d’onore va a chi merita di essere letto, per ragioni che in questa sede tralasciamo in quanto diventeremmo giudici “ingombranti” e faremmo da ombra alle tante acclamate maschere oscure.

Sapete perché? Rovineremmo le loro scommesse, i loro giochi osceni di prestigio in una casta di politici, di affaristi, di commedianti di turno, di consorterie che emergono sempre più numerose, le cosiddette mafie letterarie, che investono un ruolo mediatico e non conoscono il rossore della vergogna.

Uccidono come sicari l’anima e l’identità della vera cultura per glorificare e avallare fiabe, cabaret, leggende e orripilanti memorie. La scrittura di Astrit Lulushi ha il valore della vita, non ha mai scritto “paginette da spiaggia” ma enciclopedie dove tutto si mostra e si diversifica raggiungendo un’armonia sublime. È diventato: “La Voce Dell’America”. È, dunque, un messaggero di Dio che impasta le parole con il proprio sangue, la propria carne e la propria pelle restituendo all’umanità divinità e libertà.

Nella profondità del suo sguardo ci cattura un velo di tristezza, il senso profondo e vero della pietà divina che in me ha ispirato la “pietas” dell’Uomo Nuovo, dove fascino e bellezza fanno la differenza, dove soltanto lui può “sottrarre” alla malinconia gli inganni e le ferite della storia trasformandoli in capolavori.

Maria Teresa Liuzzo

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