di Stefano Boring
“Non conoscevo nessuno in tutto il Paese che, come lui, fosse ritenuto tanto un privilegiato quanto un perseguitato. Capitava che questi due epiteti gli venissero affibbiati in una stessa conversazione di dopocena e talora dallo stesso interlocutore. Tutti concordavano comunque nel dire che i suoi rapporti con il potere statale avevano del misterioso. Si parlava di critiche, persino di pesanti accuse formulate nei suoi confronti, di quelle che possono spezzare la vita di un uomo, ma, con l’eccezione di un solo plenum, tutto ciò che lo concerneva aveva sempre avuto luogo a porte chiuse. Poi, mentre ci si aspettava la sua caduta in disgrazia (“Adesso tocca lui” o “Non possono fargli niente” erano altri argomenti prediletti delle conversazioni di fine serata), il suo volto ricompariva all’improvviso su qualche palco, esibendo la stessa inalterabile cupezza. Qual era stato il prezzo di quella immunità”.
Con queste parole, tratte dal suo romanzo La figlia di Agamennone (scritto a Tirana tra il 1984 e il 1986 in piena dittatura comunista e pubblicato venti anni dopo), Ismail Kadare, figura centrale della letteratura albanese, venuto a mancare lo scorso primo di luglio, dipinge il ritratto di un celebre pittore immerso in un’Albania comunista, paranoica e arbitraria. La descrizione che emerge da queste parole si rivela però calzante per lo stesso Kadare, che si è trovato nel corso della sua vita più volte al centro di controversie e polemiche. Lo scrittore può essere considerato il più noto intellettuale albanese in epoca contemporanea, tradotto in diverse lingue sin dagli anni ’60, candidato quindici volte al premio Nobel e vincitore di numerosi premi internazionali tra i quali il primo Man Booker Prize; è autore di romanzi e racconti che spesso riflettono le tensioni tra il potere politico e la libertà individuale, talvolta giudicati dai contemporanei “sovversivi”.
Nonostante i suoi testi siano stati spesso interpretati come critici verso il regime comunista del feroce dittatore Enver Hoxha attraverso simbolismi e metafore, non ha mai denunciato apertamente il potere, anzi ne ha preso parte e secondo molti ne è stato ampiamente favorito. Inoltre pur avendo le sue opere più coraggiose subito forme di censura, le pene che gli sono state inflitte non sono mai state troppo severe.
Chi era insomma Ismail Kadare: uno scrittore al servizio del regime di Enver Hoxha o un dissidente astuto? Perché ha goduto di una certa impunità? Il dibattito si accese, senza esaurirsi, soprattutto a partire dal 1991, all’indomani di un’intervista condotta in una trasmissione francese da Bernard Rapp, noto moderatore televisivo, dove si discusse l’eventualità di conferire a Kadare il premio Nobel. Diverse voci si alzarono opponendosi alla sua candidatura. Tra i critici più espliciti possiamo annoverare sia scrittori albanesi come Fatos Lubonja, che dal regime comunista era stato imprigionato, sia intellettuali occidentali, tra i quali Noel Malcolm, storico e giornalista inglese, presidente dell’Anglo-Albanian Association.
Da un lato la questione Kadare potrebbe essere liquidata ascrivendola a un ambito più ampio, molto attuale, che riguarda il rapporto tra etica e arte: “ È giusto premiare un’opera artistica quando l’artista stesso si rivela moralmente discutibile?” Dall’altro, se vogliamo davvero affrontare questa polemica, è essenziale contestualizzare, tenendo presente l’avvertimento di Peter Morgan, direttore del programma di studi europei presso l’Università di Sydney, che mette in guardia dal giudicare lo scrittore albanese da un punto di vista post-comunista e occidentale. Secondo lo studioso, la fortuna e la parziale impunità di Kadare possono essere attribuiti a una combinazione di fattori, tra cui il periodo storico in cui iniziò a scrivere, la seconda metà degli anni ‘50, quando Hoxha stava promuovendo una nuova cultura letteraria; la capacità dello scrittore di intessere rapporti con i circoli letterari e con editori anche stranieri; il carattere nazionale, fortemente identitario della sua opera, che affonda le sue radici nei miti, nelle leggende e nella storia albanese, con un patriottismo che finiva per ben conciliarsi con il socialismo tinto di nazionalismo di Hoxha.
Al netto delle polemiche, la natura distopica e sovversiva degli scritti di Kadare risulta comunque innegabile. Come scritto da Robert Elsie, studioso tedesco specializzato in letteratura e folklore albanesi, “sebbene alcuni osservatori lo considerassero silenziosamente un opportunista politico, e molti albanesi in esilio in seguito lo criticarono a gran voce per i compromessi da lui fatti, fu Ismail Kadare più di chiunque altro che, dall’interno del sistema, assestò il colpo mortale alla letteratura del realismo socialista. Sfruttò la sua relativa libertà e il suo talento per lanciare molte raffiche sottili ma efficaci contro la dittatura, nel processo di diventare il rappresentante più importante della letteratura albanese sotto il governo di Enver Hoxha e, allo stesso tempo, l’avversario più talentuoso del regime”./EastJournal.Net