Di Franca De Santis
Per parlare di Camus tocca affrontare la mortalità e l’immortalità. Si apre, dunque, un terreno impervio e spigoloso. Incedere con delicatezza e decisione è possibile solo attraverso un sentire distante ma penetrando e quasi incarnando un comune sentire del divenire in destino.
Ci riesce Pierfranco Bruni nel volume “Camus, in solitudine di esilio” edito da Solfanelli editore. Il titolo può essere, a mio parere, interpretabile con l’allontamento ricercato di stereotipate ideologie cristallizzate in schemi sorpassati che più nulla hanno da offrire e più non convincono l’uomo Camus che vede nella parola non già uno strumento di comunicazione ma l’anima di un pensare oltre la cronaca.
Un passaggio importante del volume è dato nel capitolo che affianca e distanzia Camus e Kafka. Oltre la tragicità, che di quella oggi non vi parlo, c’è il tramonto. Tramontare è andare oltre, non solo guardare e interiorizzare il momento del sole che va a riposare in un cielo avvolgente di colori caldi oltre l’orizzonte nostro, è un domandarsi se aldilà del tramonto siamo disposti a chiederci qual è, e se c’è, la strada che porta oltre il bene e il male. Camus e Kafka hanno in comune civiltà che annunciano la fine.
Pierfranco Bruni riporta un passaggio de “La peste” <> a significare che Camus cammina sulla graticola dell’assurdità. Sa bene che morire è assurdo, e torniamo al tramonto, l’uomo è tempo e ricordo. Aldilà del bene e del bene e del male Camus ha posto l’amore come incipit e l’amore come fine. Solo Pierfranco Bruni poteva scrivere così di Camus.