Recensione di Enzo Concardi
Con la prefazione di Marco Zelioli – nella collana di testi letterari Alcyone 2000, della Casa Editrice Guido Miano di Milano – è stata pubblicata nel novembre 2024, la raccolta poetica di Biancamaria Valeri: “Di fiore in fiore”. Il titolo richiama, sebbene parzialmente, il noto verso sabiano: “… M’incantò la rima fiore / amore”, che leggiamo in Amai, lirica della sezione Mediterranee del suo Canzoniere. Nella scrittura della Valeri, tuttavia, non vi sono solo motivi naturalistici (madre natura) e sentimentali (amore duale), ma più poetiche s’intrecciano a comporre un mosaico di emozioni, ricordi, meditazioni, spaziando dalla presenza del dolore nell’esperienza umana – lacerazioni affettive personali e lutti provocati dalla violenza delle guerre e del potere – alle speculazioni sulle tematiche dell’essere e del tempo, alla memoria delle profonde radici del luogo elettivo e natio di Ferentino, alle istanze spirituali dell’anima, alla manifestazione di un bisogno religioso di Trascendenza. A ciò va aggiunto, per meglio inquadrare l’estetica della sua poetica, il legame linguistico e semantico con la tradizione letteraria italiana classica per taluni aspetti, ermetica novecentesca per altri.
Il canto naturalistico della poetessa è un invito all’ascolto delle voci provenienti dal cosmo più grande e dai mondi più piccoli, che talora si sovrappongono. S’innestano sovente metafore e simbologie proiettanti le immagini nell’alterità e nell’oltrità, creando raffigurazioni di sicuro effetto lirico, anche con l’uso di sinestesie. Un esempio ci è dato da Pioggia, in cui essa è paragonata alla “voce del cielo” che “scende fitta sulla terra”; il suo linguaggio assomiglia a “trilli” o “cinguettii”; penetra nell’animo del “sognante / ascoltatore”; le gocce sembrano “lacrime amare … inconsapevoli e fredde” perché “del dolore umano” sono “ignare”. E qui abbiamo la stessa concezione leopardiana insita nella sua filosofia della natura, trasformatasi da madre in matrigna, poiché conosce il destino degli umani, ma non ne svela i segreti. Più consuete sono le immagini coloristiche descrittive delle atmosfere autunnali ed estive (Vento d’autunno, Estate), stagioni che segnano le trasformazioni climatiche. Da segnalare in Estate la reminiscenza foscoliana tratta dal quinto verso dei Sepolcri: “bella d’erbe famiglia e d’animali”, che in lei diventa: “la bella d’erbe e animal / famiglia”, anastrofe di sapore neoclassico. Ed ancora il rimando dannunziano di Falce di luna calante, in cui il satellite terrestre, caro ai romantici ma, invero, a tutti i poeti, nella poetessa fa da
alter ego al “bagliore spettrale / delle luci cittadine”, creando un contrasto fra natura e tecnologia aliena.
I concetti di viaggio, navigazione, cammino – con tutti i rischi, le contraddizioni, le problematiche insite – si attanagliano ai percorsi esistenziali dell’autrice. Infatti l’immagine della Zattera le ispira una composizione nella quale risuonano questi versi: “Come una zattera / è il nostro andar / pel pelago in burrasca / …”, ma alla fine essa sarà l’ancora di salvezza che ci farà guadagnare la terraferma e scopriremo che la vita, l’amore, sconfiggono la morte. Sono care a lei le metafore marine, ed ecco allora Naufraghi, l’immagine della nostra condizione umana, nella quale emerge – come altrove – la funzione fortificatrice del dolore, che ci migliora e rende solidali e fratelli. Anche Vorrei si pone sulla linea delle antitesi ontologiche, in quanto la vita “è un finissimo equilibrio / tra essere e non essere, /desiderare e avere”. Il ritmo dialettico passioni-illusioni si dimostra uno scacco esistenziale, mentre una svolta avviene con “la speranza della luce” che “è più forte dei muti terrori”, e con l’abbandono nell’infinito, ancora di tipo leopardiano (“profonda quiete”), contemplato dai colli dell’amatissima Ferentino.
Ora il passo è breve per penetrare nelle dimensioni religiose, spirituali, nel mondo pneumatico, così ben evocato in Paese dell’anima, lirica paradigmatica delle realtà interiori vissute dalla poetessa (“È un paese la mia anima”) e rese anche formalmente efficaci mediante iniziali maiuscole, anafore congiuntive e possessive, versi brevi, ritmi incalzanti, concetti oblativi dinamici, come comunione, comunicazione, comunità. Il gradino finale è raggiunto: l’abbandono nelle braccia di Dio Amore, nella sua pace e nella sua luce, nell’estasi della Pasqua di Resurrezione, come insegna San Paolo: “Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?” (1 Corinzi 15,55). E chiosa con convinzione nell’ultimo verso: “E non ci fu più fine”.