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È uscito il libro di poesie: STAGIONI di MARIA FRANCESCA BORGOGNA con prefazione di Marco Canzanella

Pubblicato il libro di poesie dal titolo “Stagioni” di Maria Francesca Borgogna, con prefazione di Marco Canzanella, nella prestigiosa collana “Alcyone 2000”, Guido Miano Editore, Milano 2025.

Il lettore graziato dal destino che s’imbatte nell’universo poetico di Francesca Borgogna, si trova immediatamente in un aperto arcano intramato di concretissime esperienze, e di baluginanti immagini del passato, che risorgono per essere ascoltate, per imporsi nuovamente alla memoria e all’esperienza dell’autrice, la cui sensibile e dolorosa meditazione è risposta all’urgenza della meditazione, del canto, del mormorare sommesso di materne presenze. La condivisione nello spazio poetico nasce da un traboccare amorevole e amaro, che ridesta lo schianto dei giorni felici, o il lento declinare di una stagione.  


L’autrice non teme più gli «strapiombi di silenzio» (Di novembre), come non sembra più paventare i falsi allarmi del tempo, le «schegge di pioggia» (ivi) dell’inclemenza di avvenimenti ineluttabili, che si consumano in una dimensione appartata, solitaria, difficilmente riepilogabile in enunciati composti e ben allineati. Da qui il desiderio ancestrale del verso come una specie di lente, a volte uno specchio, una superficie luminosa, il cielo, il mare, ma anche l’acqua sporca che s’infossa in sentieri sconnessi, le gore che si addensano negli avvallamenti delle età trascorse.  


Questa poesia è necessaria poiché esprime il bisogno inestirpabile dell’animo umano di narrarsi, di riepilogarsi per tornare ancora a interrogarsi sul suo destino. Al soggiornare in un presunto approdo, fa immediatamente seguito lo sconvolgimento interiore di un possibile nuovo inizio, e tali pulsazioni sono lo svilupparsi elastico e spigoloso dei versi stessi: essi giungono a dire, oltre l’esprimibile nel nitore dell’enunciato consunto dalle convenzioni, la lingua segreta delle cose, il risvolto segreto dell’anima delle cose in cui si perde lo sguardo magnetizzato dell’autrice.  

Colpisce certamente la sensibilità del lettore accorto e circospetto la prodigiosa varietà di registri che l’autrice ci offre come un diario di viaggio, una memoria che trascolora nel ritrovato affetto, dopo ogni inevitabile burrasca, per le cose che la circondano, e che restano là, in attesa di lei, dopo ogni viaggio, ogni distacco, che non è mai tradimento delle sue radici equoree e mediterranee.  


Dalle geometriche poesie di questa raccolta, tenera e crudele, aspra e dolce, emergono molti complessi sentimenti del mondo, del tempo, della natura, dei rapporti umani e un infinito interrogarsi sul ruolo che la memoria e l’esperienza hanno nei destini umani. Come giustamente osserva George Steiner nel suo Vere Presenze, ora non bisogna far velo alla luce dei versi, al loro respiro di volta in volta allarmato e riconciliato. Ciascun lettore, investendo le sue gioie e angosce nell’esperienza sovrana della lettura, comprenderà ciò che può, ciò che deve, ma sempre con la confidente certezza di introdursi in un clima spirituale che si offre alla meditazione, alla lenta distillazione di sentimenti che non si perderanno nell’oscuro volgere dei giorni, e, in ultima analisi, in dimensioni in cui, tenuto per mano dall’autrice, forse ritroverà nuovo slancio e nuovi entusiasmi ed una concreta, reale opportunità di sviluppo e di crescita interiore.  


La radice orfica e pitagorica riappare sempre là dove la poesia non è descrizione sentimentale immediata, ma filtro magico del dolore, infinito che il verso rende tangibile, eterno che finalmente possiamo identificare in ogni attimo di ogni nuovo giorno. Le Stagioni segnano così il confronto dell’autrice con le «maghe di Tessaglia» (Fugace), con gli allestimenti scenici del ricordo, sempre chiaroscurali anche nella luce accecante del mezzogiorno; col flusso del tempo su cose e persone, un tutto roteante che, in tal modo, presto «non ha più nome» (Di verde e di pietra). Non ci sono più né domande né risposte nella pura temporalità. Per tali motivi, l’autrice non ci nasconde, a volte, la sua pena, la delusione, il terrore del confronto con «le belve affamate» (Oltre la notte) che non si sono fatte annunciare, e che si sono avventate su ogni cosa. Ma c’era sempre ad attenderla «una fragile alba chiara» (ivi), così nulla ha potuto sospendere in lei gli appuntamenti con sé stessa, la cura per la natura, lo sguardo affettuoso rivolto in perpetuo pieno affidamento alla natura.

Ci sono, certo, «sogni dismessi (…) una fragile folata/ di tardiva primavera» (La noia); e c’è inoltre la lacerante consapevolezza della generale cecità umana, nella quale si consuma un dramma vergognoso di aridità e ottusità, e che porterà inesorabilmente ad una visione desolata e terribile del destino degli uomini; tuttavia, anche se «invano il tempo ci porta/ il canto antico degli uccelli» (Alla fine), il mondo è colmo della gioia dei “giochi effimeri” che i poeti e i bambini, figure angeliche, raccolgono, conservano, sempre pronti a devolverli con un sorriso insondabile a chi sa riconoscerne il valore, a chi accetta di misurarsi col valore, a chi riconosce il valore perché è di valore.  

Il poetico, se è possibile adombrarne le vibrazioni senza alterarne l’intima preziosa essenza, è certamente questa fiducia, questa incondizionata capacità di amare disinteressatamente tutto ciò che si manifesta nella gioia, nell’intelligenza, nella fiducia, nel raccolto splendore dei gioielli di Opar.  
L’ampia tavolozza di Francesca Borgogna s’inoltra così nell’avventura di esporsi negli infiniti desideri destinati a rimanere inappagati, ma proprio per questo, capaci di descriversi fino in fondo, riflettendosi negli specchi di mille occasioni e osservazioni. Il lettore saprà accedere a queste meraviglie se serberà l’austera gentilezza e la forza del cavaliere in cerca di sé stesso, e che attraversa lentamente, in groppa al suo splendente sauro, il gelo, la neve, i rigori dell’incomprensione, le acque che scorrono, le comunità di piccoli animali di tutti i regni della terra che lo osservano ragionando tra loro con gli sguardi e piccoli suoni, le nebbie, i venti in cui tutto si rimette eternamente in moto, in ogni plica dell’essere. La Luna osserva, e il suo sguardo d’argento sembra ispirare coraggio e perseveranza all’autrice, spesso persa in un mare ostile di inquietudini, silenzi, rotte segrete.  


Tutta la serie di Stagioni ci offre variazioni sul tema della fragilità, del mutare degradandosi, del patire nell’acido inclemente del tempo. Sono gli attimi che ci colgono impreparati, inermi, di fronte all’ignoto, e in cui ci percepiamo come “equilibristi ciechi” che hanno tuttavia ormai percorso un cammino significativo, davanti al quale si profila la sequenza di tutto ciò che non è stato, di tutto ciò che, privandoci, impoverendoci, raddoppiava nel colpo inferto senza misericordia di una doppia definitiva assenza, una non nascita per troppo affetto, per strabordante desiderio, sempre punito, sempre umiliato.  


Ma resta, ci assicura la voce severa e dolce che ci parla, un «ardente profumo» (I mai nati) del fuoco sacro che arde nel ricordo indelebile. L’attraversamento di queste Stagioni non può, però, concludersi con una katàbasis: la discesa agli inferi ormai è parte della vita, la sapienza di questa poesia lo sa bene, ed è questo il dono più prezioso, dono fraterno, che l’autrice ci offre, la sua esperienza di un’anabasis, semmai, un’ascesa, e poi un osservare nella luce di un nuovo giorno la vita che si rinnova, le mille creature che la circondano, tra le quali, ella, con amore infinito ha accolto ogni pietra e ogni grano di sale.

MARCO CANZANELLA  

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