Di Matteo Tacconi
La Polonia è il modello cui tanti ucraini guardano. Perché è vicina, e perché vive il periodo di maggiore stabilità della propria storia.
La Polonia fu spartita da Russia, Prussia e Austria nel tardo ‘700, fino a scomparire come entità statale. Rinata nel 1918, fu nuovamente cancellata nel 1939, da Berlino e Mosca: parliamo del patto Ribbentrop-Molotov.
Dopo la seconda guerra mondiale, in cui perse sei milioni di abitanti, e tra questi tre erano ebrei, divenne uno stato satellite di Mosca. C’erano 56mila militari sovietici, sul suo territorio, con 600 carri armati, 400 pezzi d’artiglieria pesante, 200 aerei.
Nell’agosto del 1980 le cose iniziarono a cambiare. Un grande sciopero ai cantieri navali di Danzica (operai che protestavano con uno stato che avrebbe dovuto garantirli), allargatosi ad altre fabbriche nel resto del paese, portò alla nascita del sindacato libero Solidarnosc. Per un anno e mezzo, fu un “carnevale delle libertà”. Stampa, sindacato, attività politica, ricerca e confronto sulla storia: cose mai sperimentate nel blocco dell’Est. Poi la legge marziale del generale Jaruzelski mise tutto a tacere, fino al 1988-1989, quando sindacato e regime scelsero la via della transizione alla democrazia. Il primo paese dell’Est a imboccarla, dopo essere stato il primo ad aprire una breccia, con Solidarnosc, nel Muro.
Oggi la Polonia è membro della Nato. Non ci sono eserciti stranieri a tenerla schiava, ma solo un contingente di garanzia Nato, più o meno 5000 uomini in tutto. Oggi la Polonia è membro dell’Unione europea. Ha espresso un presidente del Parlamento (Jerzy Buzek) e uno del Consiglio europeo (Donald Tusk), ha avuto un’impennata economica spaventosa, paragonabile come portata ai miracoli italiano e tedesco del dopoguerra. Ha ricucito i rapporti con la Germania, ha riscoperto e valorizzato la sua storia ebraica, pur se permane qualche residuo antisemita. Ha trasformato le sue città. Anche le sue campagne: con i fondi europei, le fattorie sono diventate aziende serie.
Ovviamente c’è da dire che la Polonia non è una Svezia. E c’è da ricordare che dal 2015 è guidata da un governo di destra, clericale e affamato di potere, un po’ revisionista a livello storico, capace di mettere in crisi la relazione con Berlino. Per questo, molti vedono la Polonia come uno stato fallito e, al tempo stesso, come un fallimento dell’Europa. Per me questo non ha senso. In questi anni bui, il paese ha dimostrato di avere corpi intermedi e reti di resistenza: i sindaci, la stampa, gli intellettuali, la cittadinanza, le donne, i volontari che aiutano i migranti intrappolati al confine con la Bielorussia. Sono speranze, segnali che si può impedire la deriva e riprendere una buona rotta il prossimo anno alle urne.
Mi chiedo anche: se non ci fosse questo tetto europeo, dove sarebbe oggi Varsavia?
Questa per la Polonia non è una bella fase, ma è – credo – solo una fase nella storia di ritrovata stabilità di un paese che negli ultimi 200 anni è stato dominato, invaso, spartito, con cambiamenti di confini, genocidi e travasi di popolazione impressionanti (nelle città dell’ovest ci sono migliaia di famiglie provenienti dal vecchio est polacco, oggi Bielorussia e Ucraina).
Per tutti questi motivi, è naturale che tanti ucraini vedano nella Polonia un modello a cui ispirarsi, uno specchio in cui potersi riflettere. Lo vedono anche con i proprio occhi: la Polonia accoglie una vasta comunità di ucraini (a cui ora si aggiungono i profughi della guerra). Viceversa, la Polonia vede nell’Ucraina e nella sua volontà di decolonizzazione un po’ di sé stessa.