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“ E ADESSO PARLO! ” – Il ROMANZO DI MARIA TERESA LIUZZO – COMMENTO LIRICO DEL PROF. MARIO SANDRO GIAMBELLUCA

Di solito sono i libri gialli a far venire i brividi, un noir poliziesco di Hitchcock o un horror di Stephen King, ma questa volta è stata l’umile biografia di un allora oscuro personaggio (diventato poi abbastanza conosciuto nel tempo) a provocarmi scosse così forti da indurmi più volte ad abbandonare la lettura.

 In un piccolo borgo, in un microcosmo quasi fuori del mondo sono accadute cose che hanno visto i legami più profondi e veri, quelli familiari, tramutarsi in odio, disprezzo, ferocia vampiresca.

 La vicenda è così tragica, allucinante, assurda che si stenta davvero a credere che le cose narrate siano appartenute alla realtà. Tutto sembra un’orribile fantasticheria che supera la macabra violenza delle favole dell’Orco che divora i bambini. Ma le cose, purtroppo, sono vere, se dobbiamo credere alla sincerità e alla buona fede della narratrice.

 La protagonista, nella sua lunga battaglia contro il male, ha saputo far fiorire splendori di luce su se stessa, facendo oggetto di cronaca gli inconfessabili segreti di famiglia imprigionati dentro i muri di una casupola, rivelatasi un vero e proprio nido di vipere.

 Un itinerario esistenziale e penitenziale quello di Mery, che, – bambina, adolescente, donna – ha dovuto affrontare da sola, con le armi del cuore, dell’intelligenza, della purezza e, soprattutto, della resistenza al dolore. Un vero drappello di scellerati, un’idra dalle innumerevoli teste, che pretendevano la sua acquiescenza nella lunga consumazione di un rito satanico, fatto di violenza sul corpo e sull’anima. Ma Mery non si piega, non può accettare né il ruolo di connivente né quello di vittima sacrificale. Di fronte alla paura, al silenzio, alla violenza, Mary sceglie il coraggio, la parola, la verità.

 Anima ferita, dunque, negli affetti di figlia, di moglie, e di madre, colpita nella dignità anche dal marito e dalla figlia. Giorni, mesi, anni vissuti nelle tenebre, tra le mura domestiche come dentro una bara.

 Può sembrare esagerato e fuori luogo la parola “eroina”, ma come vanno giudicati, se non eroici, gli atti, i gesti, i comportamenti di Mary, che cosa è il suo diario se non il canto straziante, ma anche salvifico, di un’epica del dolore? Che cosa manca alla nostra per assumere i connotati di tante figure femminili della tragedia greca, anche se si muove in un ambiente sordido e plebeo, tra personaggi di nessun peso sociale e culturale, immersi in uno squallore bestiale, senza luce alcuna di umanità? La nostra eroina, infatti, non è travolta dai suoi errori, da vizi e debolezza proprie, ma ha contro di sé un destino crudele e infame, un “fato” nemico, che la porta in mezzo a tante brutture.

 La sua morale lei la appresa da sé, dall’interno della sua anima, dall’affetto e dall’esempio della sua maestra, dai libri e dalla sua talentuosa scrittura. Il resto è stato desolazione, solitudine e dolore. Il segno che concentra in sé la grandezza di Mary sta nell’avere lei accolto il male su di sé senza mai recare male agli altri, crescendo in umanità e generosità, fortificandosi alla luce di Dio, mantenendosi pura in mezzo alle turpitudini. Era di amore che lei aveva bisogno, e amore ha sempre dato fino al riscatto totale della sua dignità e affettività di moglie e di madre.

 Riprenderemo più in là questo tema, intanto vogliamo sottolineare l’alta valenza morale che assume, deve assumere su tutti noi, la lunga lotta di una ragazza contro la protervia truce dei suoi carnefici, un insegnamento irrinunciabile, un imperativo categorico: che la purezza, gli ideali, il diritto a una vita a misura del nostro “io” non si possono alienare a niente e a nessuno. Non soccombere, ma continuare la battaglia sostenuta dalla fede nei nostri sentimenti e nella voglia di ascensione.

 Anche noi, che abbiamo seguito le vicende del calvario di Mary come “spettatori dietro le spalle”, abbiamo più volte vacillato quando i fatti ci colpivano come violenti pugni allo stomaco. Qualche volta abbiamo sofferto la tentazione di mollare, davanti a tanta insopportabile crudezza, ma abbiamo voluto resistere, perché desistere ci sembrava come un tradimento a Mary.

 Il testo si presenta come un libro di confessione: il sottosuolo viene esplorato in ogni cavità, in ogni anfratto, ne illumina per noi la tenebra, la luce della sincerità. Mary rivela una forza insolita, e parla di sé come si parla e si racconta al più fidato ed esperto psicanalista, perché vuole che tutti sappiano. C’è una funzione pedagogica nella sua confessione; la sua liberazione dall’inconfessabile giunge a noi come un invito a sapere e a meditare, e, in fondo, anche giudicare. Così viene spazzato via quel vento incestuoso che soffiava fra le mura domestiche, come un vero “cuore di tenebra” che tutti volevano rimanesse nel buio di famiglia a costo di violenze e di anaffettività totali.

 Un’atmosfera traumatica entro cui si generava un deserto sentimentale contro il quale profumava di lacrime, di attese e speranze l’anima di Mary. Sempre nel silenzio, per coprire col terrore segreti e scandali, perché rimanessero chiusi nell’armadio scheletri e nefandezze, fino a quando la protagonista decide di dire basta, “E adesso parlo”. E parla Mary, e la parola spazza il silenzio complice, e scuote il mostruoso edificio di false e feroci relazioni. E la verità emerge: come un potente farmaco, rivelatore e guaritore. È spontaneo chiedersi: Come ha potuto la bambina, e poi la giovane donna, affrontare e resistere a tanto oltraggio, evitare l’infamia di “mostruosi connubi”, superare i “cupi sconforti del cuore”? Qui mi sento di affermare che la natura le è stata benigna, fornendole un talismano veramente magico: l’amore innato per la Poesia, per la lettura, per l’arte. Un dono che lei ha saputo sfruttare con la forza di volontà, con la pascoliana < piccozza d’acciaio ceruleo >.

 La Poesia è il rifugio e l’arma che le ha consentito di superare ogni avversità, di emergere da gorghi mortali, di superare indicibili burrasche, e di adagiarsi infine (vedremo poi come) in un’oasi di serenità, pur con tutta la mestizia e la spossatezza che inevitabilmente una dolorosa pressione quotidiana non può non produrre, anche in spiriti fortissimi.

 La parola e la scrittura, dunque, sono state la medicina che ha potuto alleviare la sofferenza di Mary, fermandola più volte sull’orlo del precipizio. Perché la parola poetica sa essere redenzione, espiazione, preghiera; una mano amica che dura e conforta, e può aprire sempre il cuore a future speranze, vincendo “le volontà demoniache”, che ci vogliono abbattere, dopo averci depredato la vita della libertà e dei sogni.

 Gli incubi e i fantasmi, dirà Mary alla fine, rimangono sempre dentro di noi, ma non potranno nuocere più. L’amore vero, la purezza, la fede, la Poesia possono esorcizzarli e renderli innocui per sempre. La storia narrata ci insegna che l’istinto di vita, Eros, ha prevalso su Thanatos, e ciò ha consentito a Mary di poter alzare gli occhi al cielo, risollevarsi dall’oppressione di quella “cieca obbedienza domestica” a cui l’obbligavano i suoi spietati aguzzini e carcerieri.

 Sperando di trovare uno sbocco positivo a quella prigionia, Mary si sposò, due volte, inseguendo il sogno di una possibile liberazione. Ma ebbe solo delusione e dolore, tranne la gioia (questa perenne) di un figlio col secondo marito, che fu poliziotto e regista.

 Dal primo marito, uomo spietato, meschino e volgare, ebbe una figlia, Priscilla, che, crescendo, si rivelò un essere davvero demoniaco. Inveiva con una furia criminale, minacciava ed augurava morte, usava un linguaggio torbido e scurrile più che mai, specie quando la madre si trovò a soffrire un periodo di infermità in seguito ad un incidente. Un calvario vero, una crocifissione giornaliera, che si stenterebbe a credere sia avvenuta realmente. E con Priscilla tutta la torma di belve che la circondava, e che certamente avrebbero goduto di un eventuale suicidio di Mary. Ma c’era nella vita della nostra come una presenza angelicata, sempre presente, come emersa dal nulla, ogni volta che Mary disperava: Raf, luce trasognata di una perenne fede, senza la quale non ci sarebbe stato scampo. Fede in un grande Amore, perché solo “Amor vincit omnia”, solo l’amore può dare la necessaria resilienza alle nostre fragilità e vulnerabilità. Raf, sempre presente e assente, ritornante; realtà e forza d’amore per tutta la vita, proiezione onirica e fantasmatica, ma vissuta come se fosse anche eros carnale. Egli gioca un ruolo determinante nella vittoria di Mary contro il Male – Raf, pittore che ha saputo ricreare nella tela il volto di Mary, come un corrispettivo pittorico della Poesia che c’è nella giovane donna, in un rapporto, un legame che esprime un duplice aspetto dell’Arte.

 Confesso di avere sforzato le mie modestissime capacità ermeneutiche per decifrare la vera natura di Raf: ho trovato le mie conclusioni, ma non sono certo di aver centrato il bersaglio. Una convinzione però me la sono fatta, che c’è in lui un preciso riferimento “storico” un’essenza biograficamente esistente che la narratrice sottopone alla trasfigurazione artistica e letteraria. Se Raf è anche mistero, ventaglio di possibilità, solo l’Autrice ce lo potrà rivelare.

 Oltre a Raf, la desertificazione sentimentale di Mary veniva addolcita da altre presenze, umane e non.

 Abbiamo già detto della Poesia, ma un accenno bisogna farlo alla bambola “Mia”. Sottile, magrissima. Immagine del dolore, il cuore sulle labbra: in essa sembra rispecchiarsi Mary, bambina, corpicino denutrito, malato con l’uso della parola quasi nullificato, eppure confortevole compagnia. Poi c’è il cane Labrador, una presenza amata, una distrazione felice, una creatura adorabile, che lasciò vuoto e dolore quando morì. Completano il quadro la nonna e, soprattutto, la maestra di Mary e il medico. Solo da questi ultimi Mary ricevette parole di affetto, e di incoraggiamento, un sorriso e un aiuto.

 Accadde poi un evento, che segna uno spartiacque positivo nella storia di Mary, un incontro che sa di miracoloso, e che può considerarsi l’inizio di un nuovo percorso di vita, un avvio verso la liberazione, la felicità, la vittoria. Mary, inaspettatamente, conosce uno scrittore, Silvio, e la sua simpatica e gentile moglie. Non si erano mai visti prima, ma sembrava si conoscessero da sempre, e un sentimento forte e sincero scattò fra loro come un legame irresistibile. Sentirono un’empatia di idee e di valori che trovava unità nell’amore per la scrittura, nel bisogno di scrivere anche per lasciare testimonianza di sé. Amavano fortemente la loro terra, e Silvio volle soddisfare un desiderio di Mary donandole in abitazione una casa di sua proprietà. Con stupore Mary si accorse che in quella casa lei e Raf avevano vissuto una loro grande storia di amore quarantasei anni prima (Vedi pag. 52), e decide di chiamarla “Destina” perché sembrava che tutto fosse determinato da una precisa volontà del destino.

 Qui Mary ritrova la pace e la serenità, sente che qui potrà essere felice, nel sentire palpitare lo spirito innamorato di Raf. Qui, inoltre, è vissuto e morto Labrador, il cane fedele, qui rinasce la preghiera, il cuore risente più forte l’essenza e la presenza di Dio. Tutto, le stanze, il giardino, le rose, emanava amore, sacro e profano, celestiale e terreno.

 Nella bellezza dell’amore per Raf il cuore riviveva anche il sentimento del divino, e l’arte, la pittura, la Poesia tutto rinasceva a nuova vita e segnava un futuro di serena e riposante felicità.

 Il viaggio penitenziale di Mary sembrava finire in quella casa, l’anima redenta e rigenerata, poteva ricominciare una nuova storia, un’esistenza degna di questo nome, con il suo cumulo di ricordi, dolorosi come spine di rovo, ma che la sua anima e il corpo potevano ormai sopportare.

 La risalita dagli inferi poteva dirsi conclusa; era giunta davvero l’ora di fare scendere il sipario su quella tristissima storia. Mary aveva bevuto il suo calice fino in fondo, compiuto un pellegrinaggio lungo una via crucis che non aveva concesso né pause né scorciatoie. Il diario poteva considerarsi giunto all’ultima pagina, ma Mary ha voluto impegnarsi in un ultimo tentativo, pacificante e conciliativo: passare il Natale con i suoi, sperando nel miracolo della santa festività. La delusione fu totale: fratelli e sorelle disertarono l’incontro, e la madre continuò a dimostrarsi anche ostile. E lo stesso accadde alla morte del padre (che in fase agonica le chiese perdono) e Mary capì che nessun fiore sarebbe mai sbocciato in quei cuori di pietra, carichi di invidia e di inspiegabile odio.

 Mary però, che qualche volta aveva maledetto, non voleva che la sua coscienza rimanesse macchiata da quelle ombre, e perdonò. Perdonò l’imperdonabile, per sentirsi anche più leggera ed aperta alla nuova vita che si spalancava davanti. Aveva parlato, con spasimante fatica, alla luce della più spietata e crudele verità, e aveva vinto. Per lei, finalmente, il sole sarebbe tornato a risplendere ancora illuminando i suoi sogni di amore e di poesia, dissolvendo il fango e le sozzure di quel “Letame umano” in una profonda, religiosa e umana catarsi.

 A questo punto potrei posare la penna, ma non prima di aver fatto un breve cenno sullo strumento che Mary ha usato per narrarci la sua infelice odissea: il linguaggio, la particolarità che assume il lessico nelle sue combinazioni per dare vita al pensiero Tutto è attraversato da una tensione lirica profonda, ribollente, che riversa sulle parole l’innata vocazione poetica di Mary. Frasi, sintagmi, ritmo: tutto soggiace alla natura del verso; le parole slittano verso una semantica che si avvale di metafore e analogie insolite, che ci inebriano al di là del messaggio che vogliono veicolare.

 Il significante gode di tutta la sua autonomia, della sua autoriflessività, della sua potenziale musicalità. Riportiamo alcuni fiori a mo’ di esempio: “Il cuore seminava oasi di morte e di sangue”, “gigli di luce si aprivano attorno”, “pause enigmatiche che nel suo ramo fiorivano come foglie d’aurora”, “il vento sgocciolava come lacrime di ombra”, “merletti di sole quando il cielo si accartocciava tra spasmi di luce, riposava la luce sui guanciali dell’ombra.”

 Mi fermo qui, ma tutta la narrazione è infiorettata di simili perle. Lo spirito della poetessa prevale spesso su quello della narratrice.  La sua prosa ha poco a che fare con quella neorealistica; non è prosa asciutta, lineare, solo referenziale.  La vediamo percorsa da un magma incandescente di figurazioni surreali, che riescono a coprire di bellezza il letame che zampilla dai fatti narrati. La componente estetica non si separa mai dalla cruda obiettività, è troppo forte nella narratrice la vocazione lirica per essere fatta tacere del tutto. È un legame genetico, ma a noi va bene così.

 La scrittura è incalzante, geniale, altamente creativa, animata da forza emotiva; dal linguaggio zampilla spesso un’acqua limpida capace di spazzare via il tanfo di una casa che sembrava una stalla di Augia.

 Un libro terapeutico, dunque, un percorso di cura che porterà alla catarsi non solo attraverso la narrazione guaritrice di terribili vicende, ma anche attraverso la forma, le modalità della loro espressione.

 Così Mary “come un’anima appesa ad una croce” (A. Merini) arriverà ad assaporare l’intenso profumo di una vera vita.

 Sandro Mario Giambelluca

Reggio Cal. 18/07/2019

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