Di Anita Likmeta su The Huffington Post
Scriveva la poetessa indiana Sujata Bhatt: “Va’ lungo le strade di Baroda,/ va’ ad Ahmedabad,/ va’ a respirare la polvere/ finché non soffochi e stai male/ di una febbre che nessun dottore ha mai sentito./ Non me lo chiedere / perché non ti dirò niente/ sulla fame e sul dolore./ (…)/”.
Questa poesia che narra il viaggio di chi parte e il ghibli, un vento secco e caldo che ti avvolge, che soffia dal deserto. Il vento che accompagna la migranza errante. Di chi sei? Di nessuna parte. Dove vai? Ovunque mi porti il vento del destino. Noi, che di un popolo abbiamo perso le sembianze, contaminati dal viaggio, condividiamo lo stesso dolore, la stessa erranza impalpabile.
Oggi scrivo di un uomo, un poeta, un mio connazionale ma soprattutto un amico prezioso che ho avuto modo di incontrare nel mio viaggio personale: Gëzim Hajdari, considerato uno dei maggiori poeti viventi contemporanei. Nato nei pressi di Lushnje, nell’Albania meridionale, vive esule in Italia dal 1993 e risiede a Frosinone. I motivi che portarono Hajdari ad immigrare non furono legati, come nella maggior parte dei casi accade, alla guerra o al bisogno di costruirsi un futuro altrove, i motivi che spinsero il poeta a lasciare l’Albania furono legati alla violenza e alla censura che venne mossa ai danni della sua persona e della sua opera. Di fatto ancora oggi i suoi scritti non vengono pubblicati in Albania. Ho conosciuto il poeta Hajdari ad una presentazione di un volume di poesie di un poeta italiano, a sua volta anch’egli immigrante in Francia, e il dibattito fu interessante proprio perché si parlava della dualità nel scrivere in lingua d’origine e quella acquisita nel paese altrove. La contaminazione, il bilinguismo come svolta e come liberazione definitiva in quanto ci si misura con il mondo esterno al proprio ma questo senza dimenticare come diceva Dante “il parlare materno”.
In una intervista pubblicata su un mensile culturale del giornale “Bota Shqiptare” il poeta dichiarò che “Farsi chiamare poeta migrante è un onore, un privilegio, perché significa non metterti sullo stesso piano di Baricco, per esempio. Tutti i grandi poeti sono stati dei migranti… perché liberandosi della nazionalità raggiungevano altre dimensioni, valori universali, altrimenti sarebbero rimasti provinciali”.
L’attività poetica di Hajdari cominciò in giovane età, quando ancora frequentava il liceo. Il suo primo libro fu una raccolta dal titolo “Antologia della pioggia” pubblicata prima della caduta del regime quando ancora i problemi politici erano molto forti e c’era una grandissima mancanza di libertà d’espressione. La raccolta che doveva essere pubblicata nel 1985 doveva cantare la gloria del partito, il suo ruolo fondamentale nella società, il socialismo, e invece la raccolta simboleggiava l’antologia delle lacrime che non aveva nulla a che fare con l’idea del partito comunista e del socialismo in Albania.
Hajdari arrivò in Italia nel 1993 a causa delle minacce di morte esposte alla sua persone in quanto egli fu uno dei primi esponenti del partito repubblicano e candidato al Parlamento nel 1992. Il poeta non celava la sua opposizione ai fatti inaccettabili che accadevano nel fronte dell’opposizione e sul giornale “Republika” denunciò i crimini della politica e gli abusi del regime post-comunista albanese.
Secondo Hajdari, l’Albania non è mai riuscita a cambiare radicalmente. Secondo il poeta tuttora il paese vive di una classe politica che fino a ieri ha condannato, impiccato e imprigionato gli oppositori politici per cui non si differenzia tanto rispetto a quella che c’era quando egli abbandonò il paese ed è per questo che egli sostiene che l’utopia del socialismo reale oggi porta il nome di “democrazia”. La delusione del poeta sta specialmente nel vedere una intera giovane generazione che non viene più fuori, che è stata contaminata nella sua accezione peggiore. Nella sua poesia, che non è italiana, ma un intreccio di culture egli cerca di portare alla luce quell’Albania che in pochissimi conoscono, un’Albania che egli vive nel corpo, nel suo intelletto, nella parola di Hajdari. Non si tratta di nazionalismo perché egli non si definisce tale in quanto sarebbe insensato visto il suo viaggio e le scelte che lo hanno condotto ad emigrare, Hajdari si colloca in coloro che compiendo il viaggio diventano inequivocabilmente portatori di una cultura che non è più solo albanese ma patrimonio del mondo.
Il poeta migrante, che rispettando i confini e la patria, si è superato oltrepassando i limiti, i suoi, le famose colonne di Ercole, l’universo del mondo conosciuto, dove plasmare un’identità tollerante e pacifica è un bisogno primordiale per salvaguardare il rispetto di ogni essere umano. La cultura albanese offre al mondo una idea pseudo-mitica del realismo socialista in quanto simbolo della letteratura moderna. Al poeta Hajdari non va a genio che molti scrittori albanesi vengano definiti dal mondo occidentale come grandi difensori dei diritti umani poiché è alla luce dei fatti che “quei grandi” scrittori erano gente i quali composero i poemi più maestosi sulla lotta di classe. Gli artisti di Enver Hoxha che non hanno mosso un dito contro quei 146 intellettuali condannati dal regime.
Questo è un fatto storicizzato e nel bene e nel male quegli artisti, dal valore non assoluto ma nello stesso tempo assoluti in quanto strumenti per la Storia stessa, sono i suoi antagonisti. Il rancore è del poeta migrante nei confronti di un’Albania che non presta attenzione ed è per questo incurante nei confronti della sua stessa cultura prodotta al di fuori dei confini.
Dove sei finita Albania? Rimembri nei ricordi di coloro che non ti hanno mai vista partorire, sei morta quando vendendo la tua primogenitura ci hai portati ad emigrare come miserabili cercando la pietas nel mondo, seduti agli angoli di alti portoni di ferro, con la faccia che osservava la terra straniera e il numero della ricevuta di ritorno. I nostri permessi che ci sono stati consentiti da un determinato sistema che ci ha assunti perché li dove abbandonammo, la nostra terra, potevamo sognare soltanto quelle parole che il vate Leopardi scrisse “fantasmi di sembianze eccellentissime e sopraumane, ai quali, (Giove) permise in grandissima parte il governo e la potestà delle genti: e furono chiamati Giustizia, Virtù, Gloria, Amor patrio e con altri sì fatti nomi” e questo ci struggeva gli spiriti.
Così il poeta migrante Gezim Hajdari conserva nel cuore quell’Albania, quella radice umana, che non lo abbandona mai, ma che si trasforma dentro egli in benzina capace di attirare e smuovere l’attenzione di giovani che, come me, cercano quella onestà intellettuale per cui vale la pena partire e vale la pena lottare. Il poeta migrante è colui il quale si muove, si trasforma, può essere l’albanese, l’italiano, il francese etc e il loro valore è insito nelle loro ossa, fondamento costituente per quel patrimonio che si vuole lasciare ai prossimi. Un patrimonio puro nonostante la sua contaminazione e che non può essere acquisito senza la necessità primordiale di creare valori. Un patrimonio che parla dei popoli differenti tra di loro ma che necessitano di essere uniti nel dialogo tra chi è già cives occidentale e l’altro che è lo straniero in quanto quest’ultimo ha scelto di migrare per la ragione più profonda; quella appunto di farsi capire.
Gli altri siamo noi; noi giovani della prima e seconda generazione di quegli emigranti che erano i nostri genitori, noi che con sforzo sovrumano cerchiamo di garantirci una sopravvivenza materiale in questa realtà storica così precaria sotto ogni profilo, noi che cerchiamo di ricostituirci di una cultura e di una identità che sono fondamenti al nostro sistema spirituale il quale urla potentemente dentro le nostre viscere la necessità di raccontarsi. Noi che abbiamo oltrepassato la leggenda diventando noi stessi iper leggenda, e come fate invisibili e in perfetto silenzio stiamo seduti ad una tavola rotonda sull’orlo della via o in mezzo al sentiero.
A te, poeta che mi riconosci in questo universo, ti accolgo abbracciandoti nella tua preghiera.
– Baciami e abbi pietà di questo corpo martoriato che emana gioia e spavento […] baciami e prega per queste braccia superstiti nella dittatura e ferite nella libertà per queste mani cresciute sotto la nudità della pioggia, per queste labbra che tremano sotto il cielo oscuro dell’Occidente per questo Verbo diventato amore e sacrificio, […] benedici questo sguardo sepolto dal Tempo […] accarezza le mie pietre.
Più degli dei, più dei miti, più dei tiranni, più del viaggio nel dolore noi soffriamo di una malattia che si chiama peccato, si chiama empietà, che si chiama mancanza nel raggiungere l’obiettivo, che si chiama tradimento. Il tradimento, il nemico più grande di ogni letteratura.