Il ministero dello Sviluppo economico è pronto a convocare le aziende italiane che fanno più uso di call center all’estero per chiedere loro di firmare un Protocollo di intesa. Obiettivo: riportare almeno 20 mila posti di lavoro in Italia, garantire qualità al servizio e retribuzioni eque ai dipendenti
di VALENTINA CONTE, repubblica.it/economia
Le reazioni. Il piano non dispiace ai sindacati. “Mette in evidenza la buona volontà del governo di agire in un settore in crisi e chiama in causa i committenti che non devono incidere sui più deboli per sistemare i bilanci”, commenta Vito Vitale, segretario generale di Fistel Cisl. “Un fatto più che interessante. Certo, bisogna capire chi e come risponderà. E scommettere sul senso di appartenenza delle aziende al territorio italiano”. Anche Salvo Ugliarolo, segretario generale Uilcom, valuta il piano Calenda in modo positivo: “Dà attenzione a un mondo abbandonato a se stesso negli ultimi 5-6 anni, con carenze di regole e vuoti normativi che hanno compromesso la tenuta occupazionale. Chiediamo però al ministro un coinvolgimento anche delle parti sociali. Perché non riaprire il tavolo permanente sui call center, convocato l’ultima volta nella primavera del 2016?”.
Il Protocollo. Secondo quanto si legge nelle bozze del Protocollo, le imprese che si avvalgono dei call center per gestire i rapporti con la clientela (sia per rispondere a richieste di chiarimento o supporto, inbound, sia per le chiamate di promozione commerciale, outbound) entro sei mesi dalla firma del documento si impegnano a:
- richiedere nelle offerte ai propri fornitori di servizi telefonici alcuni parametri di qualità e cioè: chiarezza, semplicità e correttezza nelle informazioni, un italiano corrente e un linguaggio chiaro e comprensibile (per gli stranieri è indispensabile la certificazione linguistica al livello C1 del Qce), risposte adeguate entro tempi contrattualmente definiti, applicabilità della normativa nazionale in termini di trattamento dei dati personali anche se il servizio è fornito dall’estero, il rispetto delle fasce orarie indicate dalla legge per i contatti telefonici;
- garantire che il 100% delle attività di call center svolte per il mercato italiano in via diretta sia effettuato sul territorio nazionale e che almeno l’80% dei volumi delle attività di call center affidati in outsourcing provenga dall’Italia, escludendo qualsiasi meccanismo di reindirizzamento del traffico verso siti localizzati fuori dal Paese;
- non effettuare aste al massimo ribasso, ma adottare il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa per l’assegnazione dei servizi in outsourcing, valorizzando gli aspetti tecnici e qualitativi dell’offerta;
- fare riferimento per gli affidamenti esterni ad un costo medio del lavoro su base oraria definito dal decreto legislativo n. 50 del 2016, dunque il minimo contrattuale, ovvero sulla base di accordi con i sindacati;
- applicare nei propri contratti di outsourcing la “clausola sociale” e dunque garantire la continuità occupazionale sul territorio nei casi in cui il call center perda la commessa e l’azienda che subentra non sia disposta a mantenere tutti i posti di lavoro.
Gli italiani che lavorano nei call center sono circa 80 mila. Molte aziende italiane utilizzano però call center esteri, perché hanno un costo del lavoro molto più basso, bruciando così opportunità nazionali, vedi il caso Almaviva.
Si stima che circa 25 mila addetti tra Romania, Albania, Polonia, Croazia, Tunisia, Marocco lavorino per l’Italia. Il governo punta a cancellare l’80% di queste commesse e dunque a creare qui 20 mila nuovi posti di lavoro.