Di Andrea Bulleri, Il Giornale dell’Architettura.com
Scalzando lo storico Kombetar, il progetto per il nuovo Teatro nazionale si eleva su una città dimentica del passato e distante dai mirabolanti render di Bjarke Ingels Group
TIRANA. «Tirana è una città essenzialmente moderna, quasi inventata (…). Il suo tempo non ha che due misure: il presente e il futuro. Il passato non esiste». Così Indro Montanelli descrive la capitale albanese, nel 1939 (Albania una e mille), con l’imbarazzo e la diffidenza di uno sguardo disincantato. Poche parole racchiudono il carattere di una città da sempre impegnata, oggi come allora, nella continua ridefinizione di se stessa. Il ripensamento è solo un inutile fardello quando il futuro si presenta nelle vesti sempre più green e friendly di T030, il nuovo masterplan: due milioni di nuovi alberi conferiranno una dimensione territoriale ad una città ancora incompiuta – in pieno fermento urbano – eppure inevitabilmente proiettata verso la definitiva consacrazione del suo ruolo metropolitano. Una città finalmente accogliente, nel quale il grande spazio pedonale di piazza Skanderbeg permetterà di estraniarsi dall’invadenza di un traffico esclusivamente veicolare, costretto su un sistema infrastrutturale datato e inadeguato. Potrebbe sembrare il contesto ideale perripensare la valorizzazione dello spazio pubblico, rivedendo l’offerta culturale e ricreativa su nuove gerarchie, stabilite da attrattori mediatici lontani dalle miserie di un’eredità novecentesca da disconoscere. Il futuro è nel terzo millennio, non alle spalle.
«Tirana sta andando verso un’era di trasformazione e innovazione senza precedenti», le parole utilizzate dal sindaco Erion Veliaj nel presentare il progetto per il Teatro nazionale d’Albania – disegnato da Bjarke Ingels Group nel centro di Tirana – sono inequivocabili. «Il nuovo teatro progettato da BIG diverrà il gioiello di questa trasformazione nel cuore della capitale! Il “farfallino” unirà artisti, sognatori, talenti e le aspirazioni di una città che sta ingranando la quinta marcia di un costante cambiamento».
Il “farfallino” in questione è un prisma deformato a forma di papillon, strizzato al centro e collocato in prossimità di piazza Skanderbeg, a ridosso del complesso ministeriale. Dovrebbe completare un ideale percorso culturale, comprendente l’Opera e la Galleria d’arte nazionale. La particolare conformazione dell’edificio ne attenua l’impatto volumetrico, risolvendo un inserimento urbano problematico con la leggerezza di un’architettura che crea riparo e spazio pubblico al livello terreno, limitando gli appoggi ai suoi spigoli esterni. Un oggetto, dal forte potere attrattivo, proveniente da un altro mondo e “atterrato” quasi per caso a Tirana (una fortuna: il suo gemello si trova invece in Corea del Sud e porta la firma dello studio Forma).
La sua forma risponde alla logica interna di un’organizzazione gerarchicamente composta su tre ambienti: un auditorium principale, al centro, affiancato da due sale minori (una dedicata ai concerti, l’altra agli spettacoli). La lettura dello spazio è immediata, demandata sia alla configurazione complessiva che alle facciate laterali: due prospetti che affacciano su ambiti differenziati, un interno urbano e un’area verde. Diversi sono anche i meccanismi simbolici attivati. Il lato nord affaccia su uno spazio più raccolto e rivela l’intera sezione del backstage esponendo, agli occhi degli osservatori curiosi, il complesso funzionamento della macchina teatrale(solitamente celata alla vista): uno spettacolo nello spettacolo. Il lato sud è un insieme di “quadri”, incorniciati da un’esile intelaiatura strutturale, dedicati agli spazi ausiliari del teatro: il foyer, la sala d’attesa, gli spazi espositivi, il bar e il ristorante. L’aspetto da “casa delle bambole” denota la ricerca di un’estrema trasparenza e permeabilità ambientale, in una spiccata cornice voyeristica. Sul tetto, la convergenza delle due falde è sfruttata come anfiteatro all’aperto, utilizzando come fondale la città in costruzione: il reale soggetto celebrato dal teatro.
I render di studio presentano una macchina mirabolante, valorizzata da accattivanti prospettive in spazi aperti – alberati e pedonali –, quando invece il teatro si trova costretto fra molti altri edifici, costruiti in epoche diverse e dalla differente altezza. Ma in questo caso l’immagine deve essere necessariamente convincente, al punto da far dimenticare che l’opera non si colloca in un’area libera da edifici ma rimpiazza lo storico teatro Kombetar. In un archetipico rito di passaggio, l’intervento impone un sacrificio, in un processo primordiale di ri-significazione che stabilisce il trapasso dell’esistente. In questo caso, una testimonianza architettonica rilevante del periodo italiano: il complesso destinato al Circolo italo-albanese Skanderbeg e al Teatro popolare, realizzato nel 1938 dalla ditta Pater con tecnologie innovative. Una costruzione articolata, che propone sull’asse stradale le testate di due edifici paralleli (in origine collegati da un portico) tra i quali è compresa una corte interna occupata da piscina, pista da ballo e ambienti ricreativi. L’insieme si è in gran parte conservato, nonostante le manomissioni e gli adattamenti subiti in un lungo periodo (come Teatro Savoia 1938-1940; Cinema Kossova 1945-1954; Teatro Kombetar 1954-2008), durante il quale si è sempre proposto come importante punto di riferimento nello scenario storico e culturale di Tirana.
Ma “il passato non esiste”. Una nuova topografia simbolica punta sull’evidenza di oggetti indubbiamente contemporanei, smantellando porzioni urbane significative. Nel 2011 la demolizione del giardino ribassato di Giulio Berté (1935), è passata quasi sotto silenzio. Qualche polemica ha accompagnato ladistruzione nel 2017 dello stadio monumentale progettato da Gherardo Bosio (1939-41), avvenuta nonostante TR030 comprendesse fra i suoi indirizzi strategici la salvaguardia del patrimonio architettonico del XX secolo. Nessuna voce si sta levando in difesa di quel poco che rimane del tessuto storico ottomano.
Tutto passa e niente rimane. Esattamente l’inverso del processo platonico della conoscenza, richiamato nelle parole di Roberto Calasso (Le nozze di Cadmo e Armonia, Milano 2009): «Non esiste la novità, ma il ricordo. Il nuovo è ciò che abbiamo di più antico».