di Keti Lelo, Dinamo Press.it
Il 17 maggio Il Teatro Nazionale Albanese è stato demolito approfittando dell’assenza del sit-in permanente in sua difesa. Un episodio che proviene da un contesto di collusione con il potere e distruzione del patrimonio architettonico albanese e anche (un po’) italiano.
Nel 2018 un gruppo di cittadini decise di opporsi pacificamente al progetto di demolizione dell’edificio del Teatro Nazionale Albanese (arch. Giulio Bertè, 1939) per far posto a un intervento edilizio considerato altamente speculativo e irregolare negli aspetti procedurali.
Un pensiero comune maturato spontaneamente, sfociato nel primo significativo esempio di movimento di opinione pubblica dopo anni di tacita sopportazione delle azioni speculative. Nella protesta si sono visti coinvolti persone comuni, artisti e intellettuali, che hanno formato l’Alleanza per la difesa del Teatro, molto attiva sia a livello nazionale che internazionale.
L’Alleanza, che sin dal principio ha dovuto fare i conti con l’arroganza del governo e con l’indifferenza di quasi tutti gli interlocutori, pazientemente individuati in giro per il mondo e contattati in cerca di un po’ di sostegno internazionale, lo scorso 17 maggio ha subito un secco colpo di ruspa. Il teatro è stato demolito, a sorpresa, approfittando dell’assenza, dovuta alle misure anti Covid-19, del sit-in permanente che dal 2018 era presente nella piazza antistante. Alle ruspe si sono poi aggiunti i manganelli della polizia e le multe dei vigili impartite alle persone per avere infranto le regole anti-assembramento.
Tirana è una città piena di vita e di contraddizioni; la si ama o la si odia, non c’è via di mezzo. Dalla caduta del regime, nel 1991, ha quadruplicato la sua dimensione.
All’abusivismo di necessità che ne ha progressivamente allargato i limiti fisici, si è aggiunto negli anni quello di tipo speculativo, che continua a trasformare le aree centrali sovrapponendo al tessuto edilizio esistente enormi edifici residenziali, uffici e centri commerciali. Vecchio e nuovo si fondono ma la caratteristica dominante rimane sempre una: il caos urbanistico.
Del senso estetico, intorpidito da secoli di miseria, si è preso carico a partire dai primi anni Duemila il “sindaco pittore” di Tirana Edi Rama, diventato famoso per avere promosso una operazione di restyling a basso costo delle tristi facciate degli edifici dell’era comunista. Il suo fervido interesse per la bellezza della Capitale è rimasto intatto anche ora che è primo ministro, personalmente coinvolto nella visionaria idea di trasformazione della città a colpi di progetti avveniristici affidati ad archistar internazionali.
Come, ad esempio, il progetto del nuovo complesso edilizio che prenderà il posto del vecchio Teatro, destinando solo un’esigua parte della volumetria complessiva a un nuovo teatro, mentre il resto sarà dedicato ad un grande centro commerciale e a residenze di lusso.
A rendere possibile l’intervento, promosso da una albanese, è stata la rimozione del vincolo di tutela che definiva l’edificio del Teatro patrimonio culturale nazionale.
Il progetto è stato affidato senza gara al gruppo che fa capo all’architetto danese Bjarke Ingels.
Questo modus operandi era già stato collaudato qualche anno prima, in occasione della costruzione dell’Arena Nazionale sul terreno pubblico allora occupato dallo Stadio Qemal Stafa. Il vecchio stadio, così come il vecchio teatro, era parte integrante del sistema monumentale di epoca fascista gravitante attorno al boulevard e alla piazza Skanderbeg. Anche in questo caso il nuovo stadio costituisce solo una parte dell’intervento complessivo, il resto riguarda negozi, uffici e hotels, tutti già realizzati.
Anche in questo caso l’impresa albanese selezionata per finanziare e costruire lo stadio aveva affidato senza gara il progetto allo studio Archea Associati di Marco Casamonti, già operante a Tirana dai primi anni 2000 e noto in città per il progetto fallito della Torre 4EverGreen, rimasta incompiuta per lunghi anni e per altri progetti ancora da realizzare. Oltre a Casamonti, un altro nome italiano ricorrente è quello di Stefano Boeri, il cui studio ha in progetto la costruzione di diversi residence e edifici multifunzionali ed è stato incaricato dal Consiglio Municipale di Tirana di redigere l’ultimo piano regolatore, TR-2030, in completa assenza di consultazioni o di dibattito pubblico.
Dietro alla narrativa postcoloniale dell’archistar che porta la modernità in mezzo allo squallore si cela un universo di corruzione, collusione con il potere e distruzione del patrimonio architettonico albanese e anche (un po’) italiano.
La povera Tirana ha ormai più metri quadri di centri commerciali per abitante rispetto a Roma o Milano.
I cittadini di Tirana sarebbero con ogni probabilità contenti di sapere che grandi architetti stranieri sono al lavoro per rendere la loro città un posto migliore, ma in questo preciso momento della storia hanno dovuto prendere atto del fatto di essere gli unici a preoccuparsi degli effetti che gli interventi in atto avranno nella vita della città e dei suoi abitanti.