Di Andrea Zambelli, East Journal
La Jugoslavia, ovvero la “terra degli slavi del sud”, è esistita dal 1918 al 2003, con un’interruzione durante la seconda guerra mondiale. Il nome stesso di questo stato, adottato ufficialmente nel 1929, celava in sé una contraddizione: nella terra degli slavi del sud, una delle maggiori etnie non era affatto slava. Si tratta degli albanesi, disseminati tra Kosovo, Macedonia, Montenegro e Serbia meridionale. Una contraddizione che nascondeva un rapporto complesso, spesso conflittuale, esploso poi in un conflitto tragico.
1912: occupazione o liberazione?
La relazione tra gli albanesi e Belgrado nella storia contemporanea inizia nel 1912, quando, grazie alla prima guerra balcanica, la giovane Serbia ingloba al suo interno il Kosovo e la Macedonia, da cinque secoli sotto dominio ottomano. L’annessione del Kosovo fu vissuta a Belgrado e tra i serbi della regione come la liberazione di una terra considerata culla dell’identità serba ortodossa. La maggioranza della popolazione, però, era di etnia albanese, per la quale il 1912 segnò l’inizio di una nuova occupazione. Proprio dal Kosovo, inoltre, venivano molti protagonisti della “rinascita nazionale” albanese, un movimento che avrebbe portato nello stesso anno alla nascita dell’Albania.
Come raccontato da giornalisti internazionali, tra cui un giovane Lev Trockij, l’ingresso delle truppe serbe in Kosovo fu contrassegnato da violenze contro la popolazione albanese, inclusi massacri, villaggi dati alle fiamme e conversioni forzate. La violenza lasciava presagire come il rapporto tra Belgrado e la popolazione albanese sarebbe stato tutt’altro che facile anche quando, dopo la prima guerra mondiale, il Kosovo si ritrovò parte del nuovo stato jugoslavo, retto dalla dinastia serba dei Karađorđević.
La prima Jugoslavia
Nella prima Jugoslavia, gli albanesi non furono riconosciuti come minoranza nazionale e le scuole in lingua albanese vennero chiuse. In Kosovo, Belgrado iniziò un’ampia politica di colonizzazione, distribuendo terre a coloni serbi e montenegrini provenienti da altre regioni, cui si sommò il tentativo di favorire l’emigrazione degli albanesi verso l’Albania o la Turchia. Queste mosse erano parte di una strategia volta a modificare la composizione etnica della regione a favore della componente slava. Una politica ben esplicitata dallo storico e politico Vaso Čubrilović, che propose l’espulsione forzata degli albanesi (e degli italiani d’Istria). Quasi a simbolizzare una vita all’insegna dell’ideale jugoslavo, Čubrilović, che da giovane era stato parte del gruppo responsabile dell’attentato di Sarajevo del 1914, sarebbe diventato ministro nella Jugoslavia di Tito.
Nei primi anni, al controllo di Belgrado sul Kosovo si opposero i kaçak, bande di ribelli albanesi guidati dall’organizzazione politica del “Comitato per il Kosovo”. Gli anni tra il 1918 e il 1923 furono così contrassegnati da un aperto conflitto, spento a fatica dalla repressione jugoslava. Da allora, fino al 1939, la regione fu pacificata, ma i kaçak avrebbero rappresentato un esempio di resistenza armata che sarebbe riemerso qualche decennio più tardi.
La Jugoslavia di Tito
La Jugoslavia cessò di esistere tra il 1941 e il 1945, periodo nel quale il Kosovo e la parte occidentale della Macedonia furono inseriti dagli occupanti italiani in un’unione con l’Albania. In questa fase, molti serbi, coloni ma non solo, furono costretti a lasciare la regione a seguito delle vendette albanesi. Con la vittoria dei partigiani comunisti, però, il Kosovo e la Macedonia tornavano sotto il controllo di Belgrado.
La Jugoslavia di Tito nasceva sotto auspici diversi. Il motto “Fratellanza e Unità” riassumeva l’intenzione di creare un paese in cui tutte le etnie fossero uguali. Dietro questa retorica, però, vi erano delle palesi incongruenze. Nel Consiglio antifascista di liberazione popolare della Jugoslavia (AVNOJ) non vi era nemmeno un rappresentante albanese. La richiesta della leadership partigiana kosovara, guidata da Fadil Hoxha, di unire il Kosovo all’Albania in nome dell’autodeterminazione dei popoli, esplicitata dai partigiani nella conferenza di Bujan nel 1944, fu ignorata. Al contrario, il Kosovo fu inserito come regione autonoma (dal 1963 provincia autonoma, come la Vojvodina) all’interno della Repubblica di Serbia. Gli albanesi, a differenza dei popoli slavi, venivano riconosciuti come nazionalità e non come nazione.
L’esperienza degli albanesi nella seconda Jugoslavia si differenzia in due fasi. Dalla fine della guerra a metà degli anni ’60, gli albanesi furono soggetti a una severa repressione. Belgrado, con il pretesto di sedare i tentativi di rivolta che continuarono a scoppiare anche dopo la guerra, impose un sistema di rigido controllo sulla popolazione albanese, contrassegnato da arresti e processi sommari. Nonostante rappresentassero meno del 30% della popolazione, in Kosovo i serbi detenevano il controllo del partito e di tutto il sistema politico, economico e sociale. Anche in Macedonia e in Montenegro gli albanesi erano esclusi da ogni ruolo politico.
La situazione mutò nel 1968. Abbandonato lo jugoslavismo e allontanato il ministro dell’Interno Aleksandar Ranković, Tito scelse di rispondere alle proteste del 1968, di cui anche gli albanesi furono protagonisti, con importanti concessioni, culminate nella Costituzione del 1974. Agli albanesi veniva concesso l’uso della propria bandiera, il termine albanci sostituiva il peggiorativo šiptari nei documenti ufficiali e l’università di Pristina veniva istituita con corsi anche in albanese. La provincia del Kosovo assumeva di fatto le caratteristiche di una repubblica e i delegati albanesi entrarono nella rotazione delle cariche nelle istituzioni federali. In Kosovo, il numero di albanesi nel partito e nella polizia crebbe sensibilmente.
I nodi
Gli anni ’70 furono l’unico momento di quasi parità tra le etnie, la fase con le migliori condizioni di vita per gli albanesi. In termini politici, però, questa situazione alimentava due domande opposte.
Da un lato, gli albanesi, che nel 1981 erano più di un milione e mezzo in tutta la federazione, chiedevano perchè popoli ben minori nei numeri, come montenegrini e macedoni, godessero di una propria repubblica. Una domanda che mostrava come, nella Jugoslavia di Tito, i popoli non fossero tutti uguali. In questa fase, in nome proprio della richiesta di fare del Kosovo una repubblica al pari delle altre, si formarono piccole cellule nazionaliste raccolte intorno all’intellettuale Adem Demaçi, severamente represse dalle autorità.
Dall’altro lato, i serbi iniziarono a chiedere perchè la loro repubblica fosse la sola, nella federazione, a dover contenere due province, ormai slegate dal controllo di Belgrado. La perdita di potere dei serbi sul Kosovo non poteva passare inosservata.
L’epilogo
Dopo la morte di Tito nel 1980, quei nodi si presentarono con forza. Mentre gli albanesi scendevano in piazza per richiedere uno status paritario, l’élite serba reagì abbracciando un nazionalismo sempre più evidente, che dalla questione del Kosovo si estendeva a mettere in dubbio l’architettura federale costruita nel ‘74, scontrandosi con le autonomie delle altre repubbliche.
Tale linea fu impersonata da Slobodan Milošević, che non a caso si affermò come leader nazionale proprio sfruttando il nodo irrisolto del Kosovo, a partire da una visita nella provincia nel 1987. Con il nuovo corso, ripresero le politiche discriminatorie contro gli albanesi: cancellazione delle autonomie, chiusura delle scuole, colonizzazione, espulsioni forzate rappresentarono un tragico ritorno al passato. E come in passato, insieme a una politica di non-violenza, gli albanesi organizzarono una resistenza armata, nata proprio da quei nuclei formatisi negli anni ’70 e ‘80. Questa volta, però, il contesto internazionale era mutato: dopo un decennio di repressione e un anno di guerra, la decisione dell’Occidente di proteggere gli albanesi fu decisiva per stravolgere nuovamente i rapporti di forza.
Il Kosovo è oggi uno stato indipendente e la Jugoslavia non esiste più. Le problematiche legate all’approccio di Belgrado verso gli albanesi, però, rimangono ancora, mettendo a rischio la stabilità della regione. La conoscenza del passato e il rifiuto di politiche nazionaliste e aggressive sono perciò cruciali per ricostruire un rapporto che, per essere pacifico, deve essere paritario e basato sul riconoscimento dell’altro./East Journal