Di Fabio M. Rocchi
Su quali autori e quali opere ho preso in considerazione per delimitare la prima fase della narrativa italofona di provenienza albanese, e perché.
Un canone il più possibile omogeneo ma non legato necessariamente al solo problema della lingua: precisazioni di metodo.
Vorrei chiarire quali sono stati i criteri che hanno guidato la selezione del corpus di testi su cui ho voluto concentrare l’analisi all’interno del libro dedicato alle prime voci dell’italofonia albanese.
A voler essere onesti, il caso di un autore di provenienza albanese che, diciamo tra il 1998 e il 2018, in un periodo lungo dunque venti anni circa, avesse scelto di scrivere in lingua italiana un’opera di finzione, in prosa o in versi, è tutt’altro che infrequente. Se dovessimo contare, la somma supererebbe senza problemi l’unità di misura del centinaio di libri. Una stessa provenienza geografica, una medesima condizione translinguistica, esperienze e trame talvolta sovrapponibili: analoghe condizioni di partenza che non potevano che portare al risultato di un mare indistinto di opere, all’interno del quale cercare di orientarsi. Anche tenendo ferma una valutazione per così dire soggettiva, e dunque connessa ad un giudizio che mi permettesse di disporre su piani distinti più opere e raggrupparle tra loro a seconda di un presunto tasso di letterarietà, le cose non sarebbero andate meglio. Negli anni di Dones, Vorpsi e della prima fase di Ibrahimi, infatti, almeno altri due autori per la narrativa e uno per la poesia, tutti albanesi e affini per caratteristiche qualitative, prendono la penna e danno voce al loro senso di sradicamento, maturato ai margini del trauma diasporico: si tratta di Leonard Guaci e Ron Kubati per il romanzo e di Gëzim Hajdari per la lirica in versi.
Rappresentano anch’essi, e a buon diritto, le prime voci della letteratura italofona di provenienza albanese. Perché dunque in qualche modo escluderli, ed evitare un confronto diretto e analitico da estendere anche alle loro opere? Se con Hajdari la differenza del genere di riferimento riesce a fornire una spiegazione, nei casi dei libri di Guaci e Kubati questa non regge, perché, a parte qualche eccezione frammentistica e comunque sempre legata alla prosa, la forma che questo studio mette al centro è proprio quella del romanzo, inteso nella sua accezione forse più storica, quella di contenitore pluristilistico e corale in grado di trasferire sulla pagina una attendibile, e significativa, mimèsi della società ad esso contemporanea.
Leggendo e riordinando per date le letture compiute in seno a questo primo canone, in quel momento piuttosto indistinto e non ancora delimitato da una proposta critica che volesse apparire coerente e guidata da una logica, mi sono accorto che la ricorsività di alcune macrofigure testuali, e la centralità dei personaggi femminili che ad esse erano connaturate, rendeva omogenee alcune opere e portava invece all’esigenza di una linea di demarcazione per tenerne separate altre. Nei romanzi di Dones, Vorpsi e Ibrahimi, moltissimi filoni narrativi dotati anche e soprattutto di una carica magnetica intertestuale che li rendeva poi compatti tra loro, al di là delle considerazioni sviluppate in merito al singolo libro, hanno trasformato il ricorso alla macrofigura in una costante anche di senso, straordinariamente adatta per organizzare un discorso in cui poteva collocarsi una riflessione sulla natura transculturale degli immaginari. La macrofigura, cui viene data una definizione esaustiva nel primo capitolo dello studio mutuando alcuni lasciti recuperati dalla lezione teorica di Francesco Orlando, è la soluzione formale attraverso la quale viene definito un tema, forte e più volte rappresentato nella stilistica visuale di un autore. Questo tema è suscettibile di una sintesi transculturale per la quale vengono recuperati, condensati in immagini ricorrenti, elementi appartenenti all’universo di origine e suggestioni maturate in seguito al contatto con un nuovo codice di rappresentazione e di riferimento.
Per questi motivi questo studio si compone di una prima selezione di undici testi, tra romanzi e prose, tutti tratti dalle opere di Elvira Dones, Ornela Vorpsi e Anilda Ibrahimi e tutti nati, già nelle loro prime versioni, in lingua italiana. Li elenco in ordine di pubblicazione: Bevete cacao Van Houten (2005), Il paese dove non si muore mai (2005), Vetri rosa (2006), La mano che non mordi (2007), Vergine giurata (2007), Rosso come una sposa (2008), L’amore e gli stracci del tempo (2008), Piccola guerra perfetta (2011), Fuorimondo (2012), Non c’è dolcezza (2012) e Il tuo nome è una promessa (2017).
A questi è da aggiungersi senza riserve, come opera nata sì in lingua albanese ma poi riscritta in italiano dalla stessa autrice, Bianco giorno offeso di Dones del 2004, uscito in Albania nel 2001 con il titolo di Ditë e bardhë e fyer. Se avessi mantenuto come guida il solo discrimine della lingua in cui originariamente una prosa era stata concepita, avrei dovuto fermarmi senza dubbio qui. In realtà, proprio per comprovare la diffusione integrale del ricorso alla macrofigura come risorsa di un immaginario quasi ossessivo e interno al singolo autore, ho preferito – pur dandone notizia in bibliografia e nei capitoli dedicati – includere anche altre opere che, seppur nate in una lingua diversa dall’italiano, rappresentavano una sorta di sostegno di secondo grado all’impostazione generale dello studio. Sono così entrati nel corpus di riferimento: Dashuri e huaj del 1997 (Senza bagagli, uscito in Italia nel 1998); Yjet nuk vishen keshtu del 2000 (divenuto Sole bruciato nel 2001) e Më pas heshtja del 2004 (divenuto I mari ovunque nel 2007) per Dones e, per Vorpsi, Tu convoiteras, scritto in francese nel 2014 e tradotto poi in italiano con il titolo Viaggio intorno alla madre e, infine, L’été d’Olta (scritto in francese e pubblicato nel 2018, non ancora tradotto in italiano).
Si tratta dunque di diciassette narrazioni complessive tenute strettamente insieme dalla coerenza dei punti di vista secondo cui si affronta il confronto con l’Occidente, così come da analogie determinate dal particolare statuto del personaggio femminile e dalla tenuta della categoria formale delle macrofiguralità, posta al servizio di una definizione transculturale dell’immagine e restituita, più volte e a distanza di tempo, sulla pagina. A questa risorsa, profondamente connaturata ai meccanismi del testo, intendo far risalire la prima fase della letteratura italofona transculturale di provenienza albanese, verificatasi agli inizi del nuovo Millennio, assieme ad un implicito giudizio di valore sulla qualità delle esperienze narrative che ne rappresentano probabilmente alcune tra le migliori testimonianze.
Le prime voci dell’italofonia albanese.
Elvira Dones, Ornela Vorpsi, Anilda Ibrahimi.
Artemide Editoriale | N. 139 Collana PROTEO.