Di Fabio M. Rocchi
Anilda Ibrahimi è una delle autrici più continue e ispirate che l’italofonia di provenienza albanese ci ha regalato nel corso degli ultimi anni. Il suo quinto romanzo, uscito alla fine del maggio 2022 per Einaudi, si intitola Volevo essere Madame Bovary e rappresenta l’ultima tappa all’interno di un discorso letterario ed esistenziale articolato a più riprese ed avviato con Rosso come una sposa nel 2008. Anche in questa narrazione ritroviamo alcune costanti stilistiche che avevano già contraddistinto la cifra narrativa di Ibrahimi: la Storia dei grandi eventi che incrocia i fatti della vita di tutti i giorni: la famiglia che talvolta opprime e talvolta può essere ancora di salvezza; i destini che spesso si separano per non ritrovarsi; le scorribande temporali tra passato e presente, stratagemma diegetico in grado di rilanciare il plot costruendo pagina dopo pagina una architettura romanzesca che guarda al realismo di matrice ottocentesca.
I personaggi di Ibrahimi rimangono impressi con facilità, non tanto per le azioni che compiono, quanto per l’umanità che sono in grado di trasmettere: Saba la matriarca, Dora (Rosso come una sposa, 2008), Ajkuna (L’amore e gli stracci del tempo, 2009), Elena, Lila, Klara (Non c’è dolcezza, 2012), Abigail, Esther, Rebecca (Il tuo nome è una promessa, 2017). Una galleria di protagoniste dotate di una capacità di adattamento e di una volontà fuori dal comune, in grado di attraversare il tempo e di portare avanti – ciascuna a suo modo – una rivoluzione totale rispetto al ruolo della donna all’interno di una società per forza di cose regressiva. A questa galleria si aggiunge adesso la figura di Hera Merkuri, inquieta, alla ricerca di sé, ma allo stesso tempo capace di prendere decisioni contro corrente e di determinare svolte significative per il proprio destino.
Chi, in vena di nostalgia e attratto dal titolo, attendesse dunque una riedizione in chiave attuale dei patemi d’animo della povera Emma, rimarrebbe drasticamente deluso. Una frase del genere, tratta dalle pagine di Flaubert, non collima in nessun aspetto con l’ethos di Hera, il personaggio centrale nell’ultima narrazione di Ibrahimi: «Nel profondo del suo cuore, aspettava che accadesse qualcosa. Come i marinai naufraghi, rivolgeva uno sguardo disperato alla solitudine della sua vita, nella speranza di scorgere una vela bianca tra le lontane nebbie all’orizzonte… Ma non accadeva nulla».
In questa storia al contrario accade molto, non tanto sotto il profilo della trama quanto piuttosto all’interno di un percorso di maturazione che può essere identificato come simbolico per una intera generazione, quella delle donne nate in Albania tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Hera Merkuri ne è la protagonista, io narrante che ripercorre alcune tappe cruciali della sua infanzia e della sua giovinezza ricordando amori passati e riflettendo sulla sua condizione, che la vede soprattutto nel ruolo di amante. Ancora una volta dunque Ibrahimi adotta il punto di vista femminile per raccontare una storia divisa a metà tra Albania e Italia, paese nella quale Hera si è ormai perfettamente ambientata, calandosi in una mentalità occidentale che ha fatto propria. E, ancora una volta, ci regala un personaggio plausibile, riuscito, che parla di molte cose intersecando nella dimensione della memoria fatti privati e accadimenti di portata storica.
Hera è soprattutto – nei suoi lucidi bilanci – ciò che avrebbe voluto essere e invece non è stata. In questa tonalità – quella di un umorismo disilluso che spesso arriva al sarcasmo – va letta la prosa di Ibrahimi, che costruisce benissimo, attraverso alcune immagini metaforiche, un clima di nostalgia e di mancata realizzazione coerente con la natura del personaggio che vede e che racconta. Hera è un’artista, una videomaker che ha riscosso un certo successo, ma non sembra vivere con passione la sua arte. Non ama suo marito, dal quale ha avuto due figli. Il suo amante, Skerd, non è un eroe e anzi la sua banalità e il suo conformismo vengono pian piano messi in rilievo nel corso degli eventi. L’amore vero – quello da romanzo ottocentesco che lei sembrava cercare – le è forse passato accanto proprio quando lei, per due volte, non ha saputo riconoscerlo.
Hera è insomma, più che un’eroina dell’amore, un’eroina della riflessione, e sicuramente non è assimilabile in alcun tratto a Emma Bovary, la moglie di Charles.
Quando nel 1856 Flaubert pubblica – attingendo ispirazioni da un fatto di cronaca realmente accaduto – la vicenda della signorina Emma Rouault, sposa del grossolano medico di provincia Charles Bovary, mette in scena un conflitto originale per l’epoca: quello tra le aspirazioni ideali della classe borghese, affermatasi da oltre sessant’anni, e il concreto realismo del quotidiano, fatto di convenienze e volto al mantenimento dell’ordine sociale. Noia, adulterio, perenne insoddisfazione, epilogo tragico: una trama melodrammatica che nel sistema della narrativa di allora ebbe moltissima eco ma al tempo stesso diritto di esistenza piuttosto breve. Hera non prende a modello quel tipo di eroina, esemplificativa di una mitologia ormai tramontata. Piuttosto, ve ne affianca un altro, meno evidente, quasi tenuto nascosto, eppure citato e commentato all’interno del capitolo 11: Becky Sharp, che ne La fiera delle vanità di Thackeray alla fine non se la passa poi così male, come Hera bambina già comprende. Forse è un esempio meno idealizzabile, sicuramente animato dal calcolo, dallo sforzo di raggiungere una posizione migliore, ma senza dubbio si tratta di un richiamo importante all’interno della formazione romanzesca di Hera.
Non un’educazione esclusivamente sentimentale dunque, bensì anche un’educazione alla lotta. È con questo spirito infatti che Hera affronta la sua scalata all’emancipazione, affrancandosi dall’oppressivo modello materno e ingaggiando rapporti conflittuali con gli uomini che incontra nel suo percorso. Ne esce vincitrice, direi, proprio per quella sua capacità di leggere oltre il pregiudizio della mentalità maschile, rovesciandone gli automatismi, e al contempo addomesticando il senso di tragedia così archetipico per chi proviene dalla sua terra, costruendo per sé stessa dunque una identità del tutto nuova.
Il finale rende coerente questo tipo di lettura. Hera abbandona, plausibilmente per sempre, la propria terra. Il romanzo torna alla scena di apertura – quella in cui in aeroporto il cielo straniero di Tirana accoglie e saluta chi è tornato per poi ripartire – e chiude il proprio cerchio argomentativo. Hera è pronta per altre sfide. Si è finalmente liberata da un retaggio culturale e matriarcale che l’ha spesso condizionata. Ma si è sbarazzata anche di alcuni falsi miti letterari che allora, ancora adolescente, le erano sembrati l’unica via di fuga rispetto a un mondo dominato dall’oppressione e da regole comportamentali assurde.
Hera, in quanto personaggio, ha esaurito la sua rivoluzione. Ma mi auguro che questo finale sia simbolico anche per Ibrahimi; che cioè lei riesca, anche solo temporaneamente, ad affrancarsi dalle tematiche albanesi ampliando le possibilità espressive della propria voce, per cercare una diversa strada narrativa, come del resto aveva già dimostrato nel 2009 con la splendida vicenda di Ajkuna e Zlatan ne L’amore e gli stracci del tempo./Culturificio.org