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Genesi e incipit del Decameron boccacciano

Celebrando i 710 anni dalla nascita di Giovanni Boccaccio 

di Stefania Romito*

Nel Decameron la società contemporanea viene scelta per la prima volta come protagonista di una grande e organica rappresentazione narrativa. Fino ad allora, i grandi testi letterari dalla Bibbia a Omero, e poi da Virgilio ai romanzi arturiani, mettevano in scena personaggi eroici e gruppi sociali mitici o leggendari. 

Fin dall’introduzione del Decameron, Boccaccio cala in una realtà contemporanea non una epopea bensì una commedia, mediante la raffigurazione degli uomini del suo tempo rispecchianti problematiche attuali. Oggetto della sua narrazione ecfrastica è la peste del 1348. Un evento angoscioso che in quegli anni aveva sconvolto la vita quotidiana degli uomini, nonché la compagine produttiva della struttura portante della società. 

Decameron in greco antico significa “dieci giornate” e richiama le dieci giornate in cui sono distribuite le cento novelle di cui è composta l’opera. Boccaccio immagina che nel 1348, anno in cui una grande epidemia di peste colpì Firenze, dieci ragazzi si trasferiscono in una villa in campagna e, per divertimento, inizino a narrarsi reciprocamente ogni giorno, per dieci giorni, delle novelle: «Intendo di raccontare cento novelle […] raccontate in diece giorni da una onesta brigata di sette donne e di tre giovani nel pistelenzioso tempo della passata mortalità fatta ». 

Per il titolo Boccaccio si ispira all’opera Hexameron (6 giorni) in cui Sant’Ambrogio racconta l’origine dell’Universo. La similitudine risiede nel fatto che come il santo descrive la genesi, allo stesso modo Boccaccio presenta nel Decameron la ri-creazione del mondo civile, colpito dalla peste, per opera di dieci nobili ragazzi fiorentini. 

Il sottotitolo, per volontà dell’autore, è «prencipe Galeotto» con un evidente richiamo al V canto dell’Inferno di Dante a sottolineare sia la rilevanza del tema amoroso, sia il desiderio di ricollegare l’opera alla gloriosa tradizione letteraria cortese (la figura di Galeotto richiama il romanzo Lancelot du Lac) e a quella simboleggiata in Italia da Dante Alighieri.

La cronologia di composizione anche per il Decameron, così come per altre opere del Medioevo, non è certa. La relazione con la peste del 1348 ci porta a pensare che l’opera è di sicuro stata organizzata dopo tale data, ma ciò non comporta il fatto che le singole novelle potessero essere già state scritte e che magari circolassero singolarmente anche in precedenza. 

La prima testimonianza della circolazione del Decameron risale al 1360 ed è relativa alla lettera di Francesco Buondelmonti, un appassionato lettore di Firenze, che lo avrebbe prestato controvoglia a un amico: «Monte Belandi scrive a la mogle che vi dia il libro delle novelle di Messer Giovanni Boccacci, il quale libro è mio […] Io il fo dare a voi perché mi fido più che di nullo altro e òllo troppo caro, e guardate di non prestarlo a nullo ». 

È da sottolineare il fatto che le più antiche copie manoscritte conservate risalgono agli anni Cinquanta del Trecento. È, quindi, tra questi estremi che deve essere collocata la data di composizione. 

Sebbene scritto all’indomani di un evento così tragico che colpì non solo Firenze ma tutta l’Europa, il Decameron simboleggia un inno alla vita e ai suoi piaceri. Per secoli ha conosciuto una fortuna enorme, ma comprensibilmente sotterranea.

Affrontando i peculiari temi della tradizione comica medievale (il sesso, la religione, la morte), Boccaccio intendeva per lo più dilettare il suo pubblico, ma l’attenzione alla lingua e la cura maniacale che dedicò al suo capolavoro presupponeva una implicita volontà di rivolgersi anche ai ceti più colti, mirando a una posterità in grado di distinguere il piano della materia da quello della forma.

La struttura complessa del Decameron mette in scena un articolato sistema all’interno del quale coabitano cento novelle narrate, come si è detto, da dieci giovani (sette nobili ragazze e tre giovani uomini) i quali, per sfuggire alla peste nera che affligge Firenze, decidono di riunirsi in una villa di campagna. Per trascorrere il tempo, stabiliscono che ogni pomeriggio, ad eccezione del venerdì e del sabato dedicati alla penitenza, ciascuno di loro racconterà una novella ai compagni, in base a un tema stabilito il giorno precedente dalla Regina o dal Re della giornata. 

Soltanto il personaggio di Dioneo, il più abile nel raccontare storie, viene esonerato dall’obbligo di attenersi al tema prestabilito. Per questo motivo la sua novella viene sempre, tranne che nella I giornata, narrata per ultima. 

Già dalla scelta dei nomi si percepisce la cura attribuita dal Boccaccio alla sua opera definendo le peculiarità caratteriali e la funzione dei personaggi. Eccetto Lauretta, Elissa, Emilia e Fiammetta (allusioni letterarie che rievocano rispettivamente la Laura petrarchesca, la Didone virgiliana, il personaggio boccaciano del Teseida e la protagonista, insieme a Panfilo, di Elegia di Madonna Fiammetta), gli altri ragazzi hanno nominativi più evocativi che rappresentativi. Pampinea, la più saggia e matura del gruppo, rimanda alla grandezza d’ingegno mentre Dioneo evoca un temperamento licenzioso. Neifile significa “nuova innamorata”, Filomena “colei che è amata” e Filsotrato “l’innamorato infelice”.

Essendo la più adulta delle sette, Pampinea descrive la tragica situazione della sua città e la necessità di fuggirne il prima possibile: «impaurisco e quasi tutti i capelli addosso mi sento arricciare; e parmi, dovunque io vado o dimoro per quella, l’ombre di coloro che sono trapassati vedere, e non con quegli visi che io soleva, ma con una vista orribile, non so donde il loro nuovamente venuta, spaventarmi».

L’orrore della morte si accompagna anche a un altro aspetto che sta a cuore alla ragazza, il degrado etico e morale della città di Firenze, i cui abitanti hanno smarrito ogni norma di comportamento e di rispetto. La corruzione dei costumi sembra coinvolgere perfino i rappresentanti della fede: «E non che le solute persone, ma ancora le racchiuse ne’ monisteri, faccendosi a credere che quello a lor si convenga e non si disdica che all’altre, rotte della obedienza le leggi, datesi a’ diletti carnali, in tal guisa avvisando scampare, son divenute lascive e dissolute». 

Il rifugio in campagna sembra un ottimo espediente per mantenere l’ordine e la moralità, come Pampinea spiega: «[…] ricordivi che egli non si disdice più a noi l’onestamente andare, che faccia a gran parte dell’altre lo star disonestamente». Boccaccio si accinge a spiegare il perché della compagnia mista di uomini e donne, che può essere considerata una situazione immorale e dissoluta, ma che invece diviene accettabile in circostanze straordinarie e drammatiche come quella della peste. Viene poi descritto il luogo in cui i giovani si rifugiano, con dei tratti che sembrano ricalcare quelli del locus amoenus della tradizione classica: «era un palagio con bello e gran cortile nel mezzo, e con logge e con sale e con camere, tutte ciascuna verso di sé bellissima e di liete dipinture raguardevole e ornata, con pratelli da torno e con giardini maravigliosi e con pozzi d’acque freschissime e con volte piene di preziosi vini». 

Dioneo, al fine di allontanarsi anche con la mente dall’orrore della città, propone di «sollazzare”, “ridere” e “cantare […] quanto alla vostra dignità s’appartiene». Una reazione essenziale di fronte alla morte. 

Pampinea accetta il suggerimento decidendo che ogni giorno ci sia un ragazzo o una ragazza con funzioni di capo, che «secondo il suo arbitrio, del tempo che la sua signoria dee bastare, del luogo e del modo nel quale a vivere abbiamo ordini e disponga». Tutto ciò è fondamentale per assicurare ed estendere il benessere e la gioia comune. Da qui prende avvio la narrazione delle cento novelle.

 * giornalista e scrittrice

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