di ENZA SANNA
Le rime straripano dal foglio in questo nuovo testo poetico di Maria Teresa Liuzzo, per non dimenticare, le fanno addirittura compagnia anche se evocano ricordi tristi, crudeli nella loro drammaticità, che si alternano a rare visioni serene della vita nelle sue molteplici sfaccettature, contraddittorie per l’esigenza fonda e sofferta di non abbandonare all’irresponsabile oblìo il passato anche se ferisce, anche se fa male, ma ormai costitutivo di una vita su di esso plasmata e forse trasformata da quella che poteva essere, o era, o è stata, una originaria serenità interiore.
Da qui la contrapposizione che segna tutta la poetica liuzziana tra bene e male, tra luce e tenebre che, al di là di annientarsi a vicenda, convivono in una realtà sofferta, a tratti disperante. Eppure la poetessa sa emergere ogni volta da ogni situazione negativa con la forza della poesia, nella libertà che sfugge ad ogni prescrizione, in quanto norma che cerca la trasgressione, nel mistero di espressioni che diventano stupore, arcaico richiamo, non per essere, secondo una nota affermazione pasoliniana, ma per camminare lungo i gradi dell’essere, da cui la stretta aderenza alle cose, alle esperienze vissute, come ben rivelano i versi del testo in esame, che si fondono su immagini derivanti da associazioni di natura simbolica, trama evocativa di parole che, grazie al suono, diventano metafore ricche di risonanze allusive, incastri di voci necessarie a un’emozione non esprimibile con la semplice parola che, come ben rivela questo particolare libro, è inamovibile, suono interiore, la sua corrispondenza con il significato, così da diventare oggetto sonoro, significante ricco di risonanze enigmatiche, misteriose, magiche, ipnotiche nelle quali consiste il nuovo linguaggio diverso e potenziato.
Ed è giocoforza che spesso la poesia, questa poesia si accompagni all’oscurità che, lungi dall’essere impotenza espressiva, è densità che parla intimamente legata alla natura della ricerca poetica, la quale è ricerca della verità, nell’intento di mostrare ciò che di sconosciuto è nel pieno dell’evidenza, pur nel nesso difficile, talora angosciante, tra cose e parole.
E comunque è sperimentazione di una scrittura lontana da iperboli avanguardiste, ma non per questo meno sofisticata sul piano della ricerca. In essa il visionario, il satirico, il fantastico, l’ironico, il tragico, il grottesco non si alternano, ma si fondono in un’opera che si pone forse, come necessità di smontare il castello di stereotipi, convenzioni, ovvietà di cui è rivestito il pensiero contemporaneo, in letteratura e nell’arte in genere.
E che cosa ci resta se non la parola, che seduce, montalianamente agisce, ed è speranza, chimera, vello d’oro, felice colpo di dadi. Perché la poeticità è sempre questione di mistero per il poeta, che come nel presente lavoro, rivela grande sensibilità nel cogliere rapide epifanie contrassegnate dai tratti del meraviglioso, del favoloso quotidiano, salvaguardia dall’indeterminatezza e dall’incertezza dell’odierno vivere, in una società, la nostra, in cui può sempre trovare spazio solo la deflorazione della bellezza.
Per un’analisi più approfondita della forma, quando talora essa si fa prosa, è prosa sempre screziata di lirismi, nella scelta ponderata dei termini che non è mai fine a se stessa, ma funzionale alla connotazione del temine, per la comprensione delle vicende narrate in un orizzonte di senso di ben più ampio respiro.
E’ testo che, nella duplicità dei piani, esige un’attenta, ripetuta lettura, propria di un’opera che si distingue immediatamente per la spiccata originalità e la modernità dei diversi temi, in un linguaggio atto a cogliere scene vivide attraverso un gusto quasi espressionista, anche in certe parti oscure che richiamano alla mente una affermazione di Mario Pomilio ”un uomo bisogna in quel che ha di notturno, perché in piena luce non siamo neppure un’ombra”.
E d’altronde lo stile è il modo che ha un autore di conoscere la realtà. Si nota spesso, proseguendo la lettura, un insistere quasi ossessivo nel trascorrere della sofferenza, man mano che lo si ripercorre, un patimento antico di cui non ci si libera mai. E la vita che scorre in queste pagine dice non il futuro, ma il presente, senza che questo le consenta di sentirsi alleviata dal passato, nel tono vagamente atemporale del libro.
Leggendo, a tratti, sembra aleggiare come dire un mistico silenzio, a un soffio dall’eterno, in un vocabolario comunque prezioso, teso sempre alla luce: è l’aura del divino, capace di trasformare l’esperienza traumatica della perdita, di qualsiasi perdita, in dono secondo l’insegnamento junghiano di trasformare i fantasmi in nutriente fonte di luce.
Anche se il mistero del male e del dolore fa vivere nell’unica realtà possibile, il kantiano noumeno, dunque nell’inconoscibile, nell’indescrivibile. Il verso pur nella sua tragicità, non nasconde una nota d’ironia, che in qualche modo sdrammatizza il presente in forma di speranza.
Ci sembra infatti che questo viaggio poetico liuzziano, nell’interiorità, nell’affrontare il tema della memoria e della perdita, la dialettica tra temporalità e eternità, contingenza e trascendenza, al di là di ogni perdita, di ogni assenza, di ogni vuoto esistenziale, della delusione e dell’illusione, si concluda con il motivo della speranza nella bellezza dell’endecasillabo ”sogno ancora di te ciò che non muore”, posto nel libro a sottotitolo, quasi a molcere in qualche modo la durezza del titolo.
ENZA SANNA