Home Approccio Italo Albanese Ismail Kadare e il potere! Di Antonio Caiazza

Ismail Kadare e il potere! Di Antonio Caiazza

«Era lo scrittore nazionale. E lo è tutt’ora. A chi gli ha chiesto il motivo della relativa libertà in cui i comunisti gli avevano consentito di lavorare, ha risposto: “Mi proteggeva la mia notorietà. Hanno detto, invece, che sono stato un protetto di Hoxha. È un’accusa ridicola. Se c’è qualcosa che mi ha difeso questa è stata, ripeto, la mia popolarità, in Albania come all’estero, e Hoxha, che non era uno sciocco, sapeva che per l’immagine di un Paese era più negativo mandare in carcere uno scrittore che massacrare gli abitanti di un villaggio…” Di Enver Hoxha, Kadare, dopo la caduta del comunismo, ha scritto che era “pazzo”, “crudele, ma forse più ottuso che crudele, assurdo di un’assurdità metafisica”. Eppure nel 1988 definì il libro II nostro Enver “Uno dei libri più importanti di storia politica che sia stato pubblicato nel nostro Paese nell’epoca del socialismo”»

«Un giorno Ismail mi telefonò per chiedermi di andare da lui con la macchina fotografica. Fu l’ultima volta che lo vidi». Incontrai il fotografo di Kadare nel ’92, a Tirana, nel suo studio. Ci teneva a farmi capire che era un grande amico dello scrittore: correva in continuazione dietro la tenda bordeaux della camera oscura per recuperare le foto che lo ritraevano insieme a “Ismail”. «Quando arrivai a casa sua trovai una atmosfera strana. Sul grande tavolo del salotto era stato acceso il candelabro. La moglie, accanto alla finestra, aveva gli occhi umidi. Ismail si mise in posa e io gli scattai delle foto. Dopo due giorni seppi che a Parigi aveva chiesto asilo politico».

La notizia fu data il 25 ottobre 1990. Ismail Kadare si trovava in Francia già da un mese. Ma attese che a Tirana si concludesse la Conferenza dei ministri degli Esteri dei paesi dei Balcani. «Non volevo turbarla», dichiarò nel libro intervista di Eric Faye Conversazione con Kadare «e non lo feci prima perché il presidente Alia era negli Stati Uniti», all’Onu, per la prima volta.

Quell’annuncio scagliato da lontano, da Parigi che per gli albanesi era il centro del mondo, fu una saetta che squarciò il cielo plumbeo di Tirana.

“Ismail” abbandonava l’Albania, il paese di cui tutti lo consideravano la coscienza. Il suo gesto fu criticato con sofferenza da moltissimi dei suoi compatrioti. Specialmente dai giovani e dagli intellettuali. «Come può aver deciso di andar via proprio adesso che abbiamo più bisogno di lui? Proprio adesso che stiamo avviando un processo democratico?», si chiedevano studenti e docenti dell’Università di Tirana. Tre mesi prima c’era stato l’assalto alle ambasciate occidentali. Poco più di un mese dopo, sarebbe stata occupata la città universitaria: nelle notti di dicembre le urla di protesta avrebbero invaso tutta la capitale. Quando Kadare riparò in Francia l’inizio della fine per il regime comunista albanese era già cominciato.

Con quella punta d’immodestia che sovente si concedeva, nelle tante interviste rilasciate nei primi anni Novanta si disse sempre convinto che la decisione di lasciare il paese, in quel momento, avesse prodotto risultati positivi: «Penso che abbia avuto un suo ruolo nell’accelerazione del processo di democratizzazione. La situazione era bloccata. È proprio per cercare di sbloccarla che chiesi asilo politico. Altrimenti l’Albania rischiava di resistere come Cuba». E aggiunse: «L’assenza è talvolta più feconda della presenza».

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Ma Kadare non era l’Havel di Tirana: non lo era perché non aveva mai avuto alcuna intenzione di passare dalla letteratura alla politica, ma soprattutto perché non era mai stato un dissidente. I suoi romanzi, anche quelli usciti in Francia nel corso degli anni Novanta, erano già stati letti in Albania: la casa editrice di Stato non gli aveva mai negato una pubblicazione.

Veniva dal sud dell’Albania, da quell’area colta che, all’inizio del secolo, ruotava intorno al Lycée français di Korca (Corizza). Era nato nel ’36 ad Argirocastro, la città descritta da Byron nel Child Harold’s pilgrimage. Trent’anni prima, nel suo stesso quartiere, era nato Enver Hoxha. «Era un intellettuale, un dandy. D’estate girava tutto il giorno con il vestito di lino bianco e le scarpe di vernice, facendo roteare il bastone da passeggio in aria…», ha raccontato di lui lo scrittore.

Poi l’Albania fu occupata dai fascisti e Argirocastro divenne testa di ponte per le operazioni militari contro la Grecia. Kadare parla di quel periodo in La città di pietra, un romanzo del ’71: gli occhi dello scrittore bambino raccontano la costruzione del campo d’aviazione, l’eccitazione per quel grosso giocattolo che era il bombardiere italiano parcheggiato nella vallata, i primi mitragliamenti aerei, le alterne avanzate degli italiani e dei greci e l’intervento risolutore dei tedeschi. Un bizzarro personaggio di quel libro adegua la sua identità alle circostanze: «Gjergj Pula aveva appena inoltrato la quarta domanda agli uffici di stato civile per cambiare il proprio nome in Jurgen Pulo. Si diceva che, a parte i nomi Giorgio, Jorgo e Jurgen, avesse in mente il nome Yogura in caso di occupazione da parte dei giapponesi».

A ventuno anni pubblicò già la seconda raccolta di poesie: vinse un premio governativo e una borsa di studio per frequentare l’Istituto Gorkij di Mosca. A quel tempo i sovietici erano gli alleati dei nuovi signori di Tirana. Ma quando, nel ’61, Hoxha ruppe con Krusciov, il giovane Kadare fu costretto a lasciare Mosca e un amore appena sbocciato.

L’ambiente subdolo e noioso degli intellettuali mandati a indottrinarsi in Urss dai paesi dell’Est, le lunghe serate trascorse a Riga, sul Baltico, il caso Pasternak, la storia d’amore con Lida stritolata dalla ragion di Stato gli ispirano, tornato a Tirana, II crepuscolo degli dei della steppa, che non era solo il racconto di quell’anno trascorso in Unione Sovietica: era come un monumento dedicato alla sua Albania, al piccolo paese dei Balcani che fa la voce grossa con la superpotenza. Un atto di fierezza culturale, sincero, prima che funzionale alle nuove direttive di Hoxha.

In una bella pagina del romanzo Kadare racconta di come ardesse dal desiderio che durante le loro passeggiate Lida gli chiedesse di narrare la leggenda di Doruntina e Costantino, uno dei miti dell’epica nata tra i monti dell’Albania. La leggenda narra di una donna che aveva molti figli maschi e una sola femmina, che andò sposa a un signore di un paese lontano. Per alleviare le pene della madre Costantino, il figlio più giovane, le promise che le avrebbe riportato Doruntina ogni volta avesse avuto desiderio di vederla. Lui e tutti i fratelli, però, morirono in battaglia. Ma la parola data, la besa, va onorata e una notte, per placare i lamenti della vecchia madre, Costantino scostò la pietra della sua tomba e volò a cavallo fin dalla sorella, avvolto in un sudario. Finalmente Lida volle conoscere quella storia. «Aspettavo che me lo chiedesse. Immediatamente, mi dissi, la sentirai immediatamente… Avevo l’impressione che il momento fosse venuto», scrive Kadare nel Crepuscolo. «Respirai profondamente, concentrai tutte le mie energie e le mie facoltà, e incominciai a spiegare alla mia compagna che cosa significasse per un’albanese madre di dodici figli sposare la sua unica ragazza in un posto lontano, ‘al di là di sette montagne’…». Tutti i popoli dei Balcani hanno elaborato varianti della leggenda di Costantino che esce dalla tomba per mantenere la promessa di riportare la giovane Doruntina dalla madre, «ma la nostra era davvero la più struggente, la più bella».

Nel ’79 a quell’antico racconto Kadare dedicò un giallo avvincente e ironico, Chi ha riportato Doruntina, un’inchiesta di polizia sul misterioso cavaliere che una notte, nel medioevo albanese, condusse la ragazza fino al suo villaggio.

Kadare deve almeno una parte della notorietà internazionale di cui gode, al suo traduttore dall’albanese al francese. Non si tratta di un letterato trovato a Parigi dall’editore Fayard. I suoi romanzi, infatti, arrivavano in Francia già tradotti. E benissimo. Venivano letti, studiati, certamente anche amati, e messi in francese da Jusuf Vrioni, un uomo colto e raffinato, un ex detenuto politico.

Vrioni veniva infatti da una famiglia di possidenti terrieri: fra gli anni Venti e Trenta il padre, liberale, fu primo ministro, ministro degli Esteri e ambasciatore a Parigi. Una storia familiare che dopo la guerra divenne ingombrante e che alla fine degli anni Quaranta portò Jusuf in una prigione del nuovo regime. Ma lui conosceva benissimo il francese e questa fu la sua salvezza. Fu liberato affinché traducesse le opere di Hoxha. Più tardi furono affidati alla sua penna felice i romanzi di Kadare prima di essere spediti a Parigi. Tutti, dal primo all’ultimo, da Il generale dell’armata morta, uscito nel ’63 in Albania e sette anni dopo in Francia, a Vita, avventure e morte di un attore, scritto fra Tirana e Parigi nel 2002.

Dal ’70 all’82 Kadare era stato deputato all’Assemblea Popolare, dall’89 alla fine del regime comunista vice presidente del Fronte democratico, l’organizzazione di massa del Partito: presidente era Nexhmije Hoxha, la moglie del leader albanese scomparso nell’85. Era membro della Lega degli scrittori e direttore di Lettere albanesi, «un incarico che mi dava solo diritto a una macchina di servizio che usavo qualche volta per andare a prendere il caffè». La Lega incassava l’80 per cento dei diritti d’autore provenienti dalle sue opere, pubblicate in una decina di lingue. «Vivevo bene. Non come la nomenklatura ma bene. Ero uno scrittore professionista e ricevevo uno stipendio che mi permetteva di non lavorare».

Era lo scrittore nazionale. E lo è tutt’ora. A chi gli ha chiesto il motivo della relativa libertà in cui i comunisti gli avevano consentito di lavorare, ha risposto: «Mi proteggeva la mia notorietà. Hanno detto, invece, che sono stato un protetto di Hoxha. È un’accusa ridicola. Se c’è qualcosa che mi ha difeso questa è stata, ripeto, la mia popolarità, in Albania come all’estero, e Hoxha, che non era uno sciocco, sapeva che per l’immagine di un Paese era più negativo mandare in carcere uno scrittore che massacrare gli abitanti di un villaggio…».

Di Enver Hoxha, Kadare, dopo la caduta del comunismo, ha scritto che era “pazzo”, assetato di potere, opportunista. Del suo regime ha detto che era «crudele, ma forse più ottuso che crudele, assurdo di un’assurdità metafisica».

– Leggi anche: Il grande bunker anti-atomico di Enver Hoxha

Eppure nel 1988 lo scrittore accettò di recensire l’ultimo libro di Ramiz Alia, il presidente comunista allora in carica, un libro che si intitolava II nostro Enver: «Uno dei libri più importanti di storia politica che sia stato pubblicato nel nostro Paese nell’epoca del socialismo. Ciò perché tratta la figura del fondatore e architetto dell’odierna Albania…», scriveva allora.

Chi è veramente Kadare? «Un enigma» lo definì anni fa Le Monde. Ma forse proprio lui ha contribuito a scioglierlo. Prima in francese, poi in italiano nel ’91 uscì Il Palazzo dei Sogni, già pubblicato dieci anni prima in Albania, il suo capolavoro.

Il Tabir Sarrail, il Palazzo appunto, è un’istituzione dell’impero ottomano. Situato al centro della capitale, raccoglie i sogni di tutti i sudditi del Sultano: da essi solerti e tristi funzionari traggono le premonizioni sulla salute dello Stato, sulle future alleanze, sulle cospirazioni interne, sulle minacce di guerra. Quel Palazzo kafkiano, che consuma nel silenzio la vita di migliaia di impiegati, è la metafora di un potere che controlla tutto, che cataloga i desideri umani. Il romanzo racconta la storia di Mark-Alem, il rampollo di una nobile famiglia, assunto proprio al Tabir Sarrail grazie alla segnalazione di uno zio Visir. Il giovane in breve diventa conscio di essere al servizio di un ente infernale, disumano: «Provava una voglia irresistibile di gettarsi ai piedi del Visir e implorarlo: fammi lasciare quel posto, zio, salvami!». Ma non riuscirà mai a liberarsi. Anzi dà il meglio di sé, viene notato dai superiori e promosso fino a diventare il responsabile del Palazzo dei Sogni. Fino a diventarne vittima per sempre, inghiottito dall’ingranaggio, strappato alla normalità. Impotente. Incapace di reagire. «Con un certo sollievo raggiunse la carrozza per tornare a casa. Attraverso il sottile strato di vapore depositato dal suo respiro sul vetro, s’accorse che la carrozza costeggiava il Parco centrale. I mandorli sono in fiore, si disse con commozione. Là dietro a due passi, lo sapeva, c’era il ritorno alla vita, c’erano le nuvole ora intepidite, le cicogne e l’amore, tutto ciò che egli aveva finto d’ignorare nel timore d’essere strappato all’influsso del Palazzo dei Sogni. Col palmo della mano pulì il vetro appannato, ma le immagini si rifrangevano, s’iridavano. Si rese conto allora d’avere gli occhi velati di lacrime». In quella carrozza sembra di vedere un malinconico Kadare. È nella macchina di Stato che lo riaccompagna a casa dopo una noiosa giornata trascorsa in ufficio, nel palazzo della Lega degli scrittori. L’auto costeggia il parco centrale, il Parco della Gioventù, sfila dinanzi alla Banca di Stato, attraversa la piazza principale piena di biciclette e di gente a piedi, e lui dal finestrino del sedile posteriore guarda la vita alla quale si sente rapito: da tanti anni non appartiene più a quella gente qualunque ma al sistema, da anni è ufficialmente uno scrittore di regime, il migliore e il più famoso di loro. Vorrebbe fermare l’auto e uscire da quel meccanismo infernale di cui è vittima e, insieme, ingranaggio. Proprio come Mark-Alem. Ma non trovò mai il coraggio di scendere da quella macchina, neppure quando il regime emetteva ormai rantoli di panico, neppure allora forzò le sue metafore, grandezza della sua arte e nascondiglio delle sue paure.

Una debolezza che la sua gente non gli ha mai perdonato. Tutti conoscono e amano i suoi libri, tutti gli albanesi sono fieri di Kadare, ma tutti distinguono tra le qualità dello scrittore e quelle dell’uomo. «È un grande autore, ma come persona…» ti senti dire da giovani universitari come da anziani professori di lettere. Ed è immancabile il paragone col più popolare e semplice Dritero Agolli.

Ismail Kadare in posa per le foto di rito in quanto vincitore del Man Booker International Prize del 2005 (Photo by Christopher Furlong/Getty Images)

«Credeva davvero che La piramide potesse provocare qualche reazione del regime», commenta Zogaj ripensando a quel tempo, «e considerava quel romanzo un test della situazione… Effettivamente era un po’ fuori dalla realtà». Non successe nulla, ovviamente. Il regime, alle prese con manifestazioni di piazza, tumulti, pressioni internazionali, con lo sfascio di un intero sistema, neppure si accorse di quel libro.

In ogni caso Kadare non attese l’esito del suo test. Era già a Parigi quando il libro, l’ultimo scritto nell’epoca del socialismo, uscì regolarmente a Tirana. «Stai tranquillo in Francia, lo pubblichiamo, gli dicevamo da qui», ricorda Zogaj. Nel ’93 La piramide fu pubblicata in Francia e nel ’97, tradotta dal francese, in Italia.

Come prendesti la notizia del suo espatrio?
«Con gioia», risponde Zogaj, «eravamo in attesa di un suo gesto».
Che opinione hai di Kadare, come letterato?
«È il più grande scrittore dell’Albania. Ha onorato la nostra lingua, la nostra cultura…».
E come uomo?
Riflette, abbassa lo sguardo e riprende, con sincerità, guardandomi negli occhi: «Non possiamo pretendere che uno che ha talento in un campo abbia talento in tutti i campi. È l’orgoglio della letteratura albanese. Ma non è Solženicyn».

Mentre saluto Zogaj, ripenso a quel quadro di un certo Agron Bregu che avevo visto alla Galleria d’arte, all’atmosfera tetra, cupa, desolata e demoralizzata di quella tela fuor di metafora del 1987. Quel pittore sconosciuto aveva usato lo stile semplice, chiaro, descrittivo del “realismo socialista” per dipingere la colpa del socialismo. E allora, nel 1987, il colpevole era ancora in vita, in tutto l’est: il muro di Berlino era ancora in piedi, Gorbaciov era ancora il capo del Partito comunista dell’Unione sovietica e Ceausescu il conducator della Romania. Kadare, appena emigrato in Francia, disse di essere stato protetto dalla sua notorietà durante il comunismo. Questo Agron Bregu, pittore ignoto e sfrontato, non aveva certamente un paravento simile mentre spalmava pennellate di neri e di grigi sul suo quadro.

Nel marzo del ’91, mentre migliaia di albanesi si riversavano per la prima volta in Puglia, Kadare fu intervistato a Parigi dal Corriere della Sera. Il giornalista gli chiese se non considerasse paradossale questa fuga nel momento dell’arrivo della democrazia. «È un grande paradosso», rispose. «Probabilmente fra qualche tempo ne conosceremo i veri motivi. È una cosa che mi rattrista molto. Sono deluso da questo atteggiamento». Rispose proprio così.

Ho racchiuso l’amore per la letteratura di Kadare, per i suoi viaggi nei meccanismi tragici e paradossali del potere, per i suoi personaggi senza felicità, per l’epica delle loro vite quotidiane, in quell’attimo trascorso dinanzi alla porta della sua vecchia casa di Tirana. Il cartellino appiccicato al citofono, “I. Kadare”, mi ha emozionato. Mi è piaciuto immaginare di incontrarlo per caso lungo qualche via della città, magari assorto in una delle sue storie sospese nel tempo. Avrei potuto chiedere ai miei tanti amici di trovare un suo numero, di verificare se in quei giorni fosse in città. L’Albania è il Paese in cui tutti si conoscono, o conoscono qualcuno che conosce la persona che cerchi. Ma non l’ho fatto: ho avuto paura che questo contatto potesse far male all’amore che ho per i suoi libri. Lo scrittore americano Scott Turow dice che certi autori è meglio leggerli che incontrarli.

Questo testo è tratto dal libro In alto mare – Viaggio nell’Albania dal comunismo al futuro pubblicato da Instar Libri nel 2008 e ristampato nel 2010. Tag: albaniaismail kadare

Antonio Caiazza

Antonio Caiazza

È nato a Siano (Salerno) nel 1964. Vive da oltre trent’anni a Trieste, dove è giornalista presso la redazione regionale della Rai. Da molti anni segue le vicende dell’Albania, sul Mattino, L’Unità e Il manifesto. Nel 1997 seguì da Tirana per Radio e TV Koper Capodistria i disordini scaturiti dalla crisi finanziaria e istituzionale che sconvolse il Paese. È autore di In alto mare, viaggio nell’Albania dal comunismo al futuro (Instar Libri, Torino, 2008, 2010), da cui questo testo è tratto, e del romanzo La notte dei vinti (Nutrimenti, Roma, 2014)./Il Post

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