Home Approccio Italo Albanese Lontani dalla superficie, nella profondità della storia. Un ricordo di Ismail Kadare

Lontani dalla superficie, nella profondità della storia. Un ricordo di Ismail Kadare

Da Fabio M. Rocchi per La Stampa

Da poche ore Ismail Kadare, massimo esponente della letteratura albanese contemporanea e allo stesso tempo uno dei più significativi scrittori della letteratura mondiale del secondo Novecento, non è più tra noi.

Nella abitudinaria vita della capitale Tirana, era solito bere il caffè presso il locale Juvenilja, sfogliando giornali o leggendo libri. Dopo le dieci del mattino, in particolar modo il martedì e il sabato, chi voleva osservarlo da lontano e chi voleva addirittura provare ad avvicinarsi, sapeva di poterlo incontrare in quel luogo. Che questo Kafe Restorant (secondo la denominazione albanese), dotato di un rigoglioso parco interno, abbia assunto dopo una recente ristrutturazione le sembianze di un castello mi è sempre apparsa una circostanza in grado di richiamare alla mente una allegoria significativa.

L’autore di capolavori come I tamburi della pioggia (Kështjella, 1970), La città di pietra (Kronikë në gur, 1971), Il Palazzo dei Sogni (Pallati i ëndrrave, 1981) e La Bambola (Kukulla, 2015) – libri in cui l’elemento architettonico è essenziale e sempre allusivo – amava estranearsi dal caos metropolitano per rifugiarsi in una dimensione più appartata, diversa, dotata di evidenti legami con il passato più che con il presente.

È in quel contesto che l’ho incontrato anche io, la prima volta nel 2021, grazie a Bujar Hudhri, titolare di Shtëpia Botuese Onufri, casa editrice che dalla fine degli anni Novanta cura la stampa della sua opera omnia in lingua originale. Il Kadare degli ultimi anni, quello che ho avuto davanti e che guardavo con reverenza, non poteva essere definito loquace. Tutt’altro. Alcuni, considerata l’età, attribuivano questa vera e propria afasia a problemi di salute. Non posso affermarlo con certezza, ma il mio bilancio delle poche frequentazioni è il seguente: Kadare con me risparmiava energie, rinunciando alle noiose incombenze della ritualità che si instaura tra una celebrità e un signor nessuno. Sembrava quasi assente, distratto o poco interessato alla conversazione; poi però si accendeva, inchiodandoti con uno sguardo dritto e ponendoti di fronte ad una domanda essenziale, di quelle alle quali non potevi sottrarti. Una maschera che non poteva che metterti in soggezione.

E, del resto, non poteva che essere così. Conversare con lui, seppur del più e del meno e per pochi minuti, equivaleva a intrattenersi con una figura intellettuale che, alla lettera, aveva fatto e rappresentava la Storia. Un autore acutamente dissidente, attraverso il meccanismo della figuralità letteraria, rispetto al regime di Enver Hoxha, ma anche scaltro a geniale al punto da sopravviverne; una voce capace di gettare un ponte tra le vestigia della cultura ottomana e il ricchissimo folklore albanese, condensandone la testimonianza in personaggi dotati di fascino; una delle figure più amate dalla cultura francese di fine secolo, che di lui fece una icona della resistenza al totalitarismo.

Nello scroll delle notifiche che in queste ore stanno comparendo sui nostri display, non può lasciare indifferenti proprio quest’ultima constatazione. Predomina l’associazione tra la scomparsa di Kadare e la sua resilienza al lungo periodo del regime.

Senza dubbio questo merito va ricordato, ma non è la prospettiva dal mio punto di vista migliore per comprenderne figura. Mi sembra che questa lettura ostinatamente politica finisca in qualche modo per offuscare l’innegabile qualità letteraria dimostrata da questo autore. Forse anche per questo, pur essendo candidato al Nobel per ben quindici volte, il premio finì per sfuggirgli, in un momento in cui il sanguinoso conflitto del Kosovo creò tensioni e delazioni a livello internazionale che lo misero in cattiva luce. La pagina di Kadare, fin da Il generale dell’armata morta (Gjenerali i ushtrisë së vdekur, 1963) è stata capace di mediare in occidente quel mondo stratificato e culturalmente poliedrico
rappresentato dalle terre albanesi.

Molto prima del 1991, la sua capacità immaginifica di intellettuale che aveva molto ben assimilato i meccanismi del migliore modernismo europeo (Kafka in primo luogo) ha aperto una finestra su consuetudini e modalità di pensiero fino a quel momento sconosciute. Leggere Kadare in lingua originale – una operazione che finisce in qualche caso per rendere fin troppo impervia la sua traduzione in versioni che ne mantengano il rigore sotto il profilo della coerenza semantica – è una esperienza che ti disorienta, specie se si riflette sulla ricchezza grazie alla quale egli ha saputo innovare dall’interno la lingua albanese, con una serie davvero inesausta di neologismi e di fraseologie notevoli perché intimamente inventive.

Non sta a me emettere sentenze sul valore del suo lascito letterario. A parlare per Kadare sono e saranno i suoi libri, oltre ottanta opere tra prosa (romanzi e racconti), saggistica di carattere erudito e storico-politico e raccolte di poesia. Si tratta di un corpus compatto, sempre logicamente connesso a meccanismi retorico-stilistici fonte di apprendimento per gli studiosi così come per i lettori. E, per concludere questo sommario e stordito ricordo, non voglio esimermi dal piacere di una citazione, tratta da uno dei capolavori assoluti di questo maestro appena scomparso, quel Pallati i ëndrrave (Il Palazzo dei sogni) in cui viene descritta con accuratezza la maniacale follia burocratica dell’imperialismo ottomano, con evidenti richiami al Pallati i Komitetit Qendrore di Tirana, sede nevralgica del temibile apparato di controllo messo in piedi da Enver Hoxha.

Ad un certo punto un collega di lavoro del protagonista, di fronte ad alcune vicende angoscianti, si lascia sfuggire una amara considerazione sulla vita e sul rapporto dell’individuo con la realtà. La ripropongo, in una mia traduzione: «Le cose sono così, completamente confuse e completamente diverse da come sembrano in superficie. Pozzi
profondi, senza fine. E noi, come ti ho detto l’altro giorno, non arriviamo a conoscere che pochi sogni, qualche nebbia…» (p. 191 Ed. Onufri, Tirana 2022). Kadare in quelle profondità ha gettato una luce, eludendo più volte le consuetudini della superficie e fornendo a noi, e ai lettori del futuro, alcuni strumenti per decodificare il senso delle opacità della vita. Anche per questo, oltre che per la bellezza delle sue storie, non possiamo che essergli grati.

Share: