Recensione di Maria Elena Mignosi Picone
Un itinerario inconsueto, un viaggio spirituale nella solitudine e nel silenzio, anzi addirittura nell’oscurità della notte, nel sogno nel quale si sviluppano i “dialoghi d’amore” tra il padre, vivente e il figlio dalle dimore dell’eterna Verità. “Caro papà… qui è tutta luce; luce illuminante, luce pervadente, luce generatrice; è luce universale, è beatitudine.” È proprio questa luce che il padre aspira a raggiungere qui sulla terra. È luce interiore, luce spirituale. Il padre, da convinto pensatore empirico e materialista, ignorava la dimensione dello spirito e respingeva la speculazione metafisica. È il dolore, sopraggiunto come un fulmine, che lo scuote e lo avvia per sentieri nuovi; nasce così imperioso in lui l’anelito alla luce spirituale. E si ripiega su se stesso fino allo stadio più alto dello spirito, la coscienza, dove si ode la voce di Dio che è amore e richiama l’uomo all’amore universale.
“A mio figlio Paolo (Dialoghi d’amore)” di Franco Colandrea (Guido Miano Editore, 2024) è un viaggio travagliato, tra alti e bassi, tra tenebre e fulgori fino al traguardo della luce spirituale che lo porterà al disopra dei tormenti terreni fino al raggiungimento della quiete dell’anima. Una sorta di Beatitudine che è il riflesso qui sulla terra della Beatitudine celeste. Ed è possibile. Sicuramente.
E il figlio, nelle varie tappe del sogno, indica al padre la via.
Il primo passo è sfrondare la propria coscienza da tutti i pensieri dolorosi e pensare invece ai momenti belli vissuti insieme. Efficace è la concentrazione del pensiero senza che si faccia deviare.
Sfrondare poi l’animo dai condizionamenti della vita, che alterano e guastano l’essenza della persona. Così ci si alleggerisce della zavorra di cui ci ha appesantito la esistenza. Questo alleggerimento è lo stadio della purificazione interiore che porterà alla quiete dell’anima.
Analogamente avviene nella malattia quando la forza della mente può modificare il corso letale e portare alla guarigione. Il padre, medico naturopata, tenace assertore della “Vis medicatrix naturae”, cioè della forza medicatrice della natura, così si rivolge al figlio: “…attraverso gli studi sulla naturopatia, ho scoperto e acquisito che con la nutrizione (digestione, circolazione, respirazione e assimilazione) vi è una continua riparazione dei tessuti che consumiamo vivendo.
Attraverso essa, se le circostanze lo permettono, l’organismo ammalato guarisce di per sé.” E aggiunge: “Il buon medico dovrebbe lasciare spesso che agisca la natura.” L’animo lieto nella malattia è di fondamentale importanza. Lo raccomandano i medici.
Il figlio così conclude: “Ti puoi ritenere un essere illuminato dalla luce del tuo sé più profondo e questo ti darà l’opportunità di esplorare gli stadi superiori della tua mente, così riuscirai a dare ancora più luce alla tua intelligenza… e solo così potrai dare pace alla mente.”
La quiete però non è da intendere come imperturbabilità. Tutt’altro. La luce cos’è se non il riverbero dell’amore? Nell’aldilà tutto è luce perché risplende l’Amore di Dio. Luce e amore sono un tutt’uno. Altro allora che imperturbabilità! Le anime stesse del Paradiso seguono i loro cari in terra.
Esempio appunto questi dialoghi d’amore tra padre e figlio, tra cielo e terra. È il figlio che conduce il padre alla quiete dell’anima.
Ma cos’è allora questa quiete?
È più che quiete! È felicità. È Beatitudine. Proprio qui. Sulla terra. E questo succede quando, coltivando la vita interiore, nel profondo della coscienza sentiamo la voce di Dio, l’uomo entra in dialogo con Dio e nell’Amore, succede il prodigio che l’essenza umana si fonde con l’Essenza divina. E in questa fusione sta la Felicità. La Beatitudine qui in terra.
Maria Elena Mignosi Picone