Recensione di Marco Zelioli
La raccolta Poesie nascoste nella dispensa (Guido Miano Editore, Milano 2024) ci fa incontrare una delle tante figure di autore “prestato” alla poesia, ma proveniente da tutt’altro campo che quello letterario. Pietro Rosetta, infatti, è un Oftalmologo, responsabile dell’Unità Operativa di Oculistica dell’Istituto Humanitas San Pio X di Milano. Eppure sembra un autore consumato, non certo un principiante. Lo testimonia anche il fatto che il suo esordio nella poesia risale al 1997.
Sotteso a tutta quest’opera c’è un amore che lacera e sembra far presentire una fine prossima, tanto che, ad un certo punto, l’Autore gli dedica quasi un epitaffio: “Qui giace il nostro amore/ a due passi da quelle onde agognate/ che lontane come non mai,/ ora, tormentano senza pace il silenzio dei nostri cuori”.
Tuttavia tale amore, a tinte a volte drammatiche, non comporta alcuna solitudine, poiché tutti siamo “onde della stessa acqua”, come notato anche nella Prefazione di Enzo Concardi: “è presente un ‘tu’ nel ruolo di interlocutore che potrebbe essere sia un altro-da-sé, che il suo alter-ego” – e per questo l’itinerario dell’opera si riassume come un cammino “tra il canto d’amore e la ricerca esistenziale senza approdi”.
Fra tali apparenti opposti c’è il tempo della vita, che corre via e costringe il poeta ad esprimersi con pensieri concitati, come nella poesia (solo un asterisco come titolo, come molte altre) che inizia e finisce con le medesime parole “Il tempo è sbocciato”. Poesia da leggere tutta d’un fiato, perché è quasi senza punteggiatura tranne cinque virgole e il punto finale, ma il cui messaggio è semplice, comprensibile a tutti: è immagine del tempo che fugge – appunto.
E il tempo della vita porta con sé tanto i ricordi (a volte sbiaditi, a volte fulgidi, a volte amari e a volte dolci) quanto gli incontri con persone sorprendenti, come la suora che nel poeta fa nascere interrogativi e così la tratteggia: “senza parlare preghi quel tuo/ Gesù che da sempre nascondi/ in cucina nella dispensa”; o come la “Maria, stanca Maria”, il cui sguardo basta a far intuire “del giorno in cui una nonna/ ti aveva spiegato il peso della vecchiaia”.
Quanto al modo di scrivere, uno stilema tipico di Pietro Rosetta, quasi insistente, è la ripetizione delle stesse parole o di un intero verso, a mo’ di ritornello d’una canzone: il che dà al lettore la sensazione di leggere delle nenie (come “I canti delle vedove”, “Questa notte”, “Quando la città è lontana”, “Centrato da non so quale grandine”, “Non so” – per fare solo alcuni esempi). Due volte, poi, una poesia inizia e conclude con le medesime parole (“Il tempo è sbocciato” e “Il tempo è maturo”). Però nessuna pesantezza grava sul fluire dei versi, che corrono via con semplicità e immediatezza, coinvolgendo il lettore, quasi costringendolo ad andare avanti.
E così si arriva alla fine del libro senza accorgersene, con la voglia di leggere ancora, per scoprire quale mistero si celi dietro l’affascinante racconto poetico dell’Autore, il quale sembra quasi descriversi compiutamente in questi versi: “Rintanato nella caverna/ della mia vita/ mi riscaldo al fuoco dell’esperienza” – ma anche tenta la nostra curiosità di conoscere altri suoi “appunti dimenticati/ nella fretta del passaggio”.