Edmond Godo, perché la scelta di candidare per il consiglio nelle file del PD?
Milito nel Pd sin dalla sua fondazione e nelle elezioni primarie del 2007 sono stato nella lista dei Democratici per Enrico Letta. Sono tesserato storico nel circolo Esquilino, zona dove abito e il Pd per me è come una casa, anche se “l’asse” è stato spostato di parecchio negli ultimi anni. Ho scelto il Pd perché è l’unico partito che rappresenta gli interessi di me come nuovo cittadino di Roma, immigrato, regolare, operaio con i contributi Inps ecc. Andare con le destre, invece, vuol dire andare contro i nostri interessi, ad esempio: la legge Bossi-Fini è discriminatoria, il decreto sicurezza di Salvini ci considera una minaccia contro la “sicurezza”; per non parlare delle loro campagne elettorali che dichiarano guerra agli stranieri in generale, ai più deboli e agli immigrati.
La mia prima esperienza politica inizia nel 2004 come Consigliere aggiunto al Terzo Municipio e successivamente come membro di origine albanese nella consulta cittadina per la rappresentanza delle comunità immigrate di Roma, esperienze dirette entrambe di indirizzo politico che hanno reso possibile la mia candidatura oggi.
La verità è che mi sento testimone di un epoca che ha visto due sistemi assai diversi, ho vissuto per metà nel comunismo e per metà in democrazia. Nella prima vedevo solo bianco e nero, nella seconda tanti colori ma se le cose non cambiano, tutti corriamo il pericolo di diventare ciechi.
Posso dire che la mia candidatura al Comune è maturata circa un anno fa quando incontrai Rolando Galluzi (ex vicepresidente del III Municipio, ora in pensione e scrive libri), a San Lorenzo, al “Bar dei Belli”, quando mi suggerì che la mia candidatura sarebbe stato un’ottima risposta ai populisti. Ci ho riflettuto a lungo, poi ho deciso, partendo da una proposta politica basata sulla consapevolezza di bisogni veri della città. Ho ripreso in mano la Delibera del Comune di Roma nr. 66/2002 “Orientamenti e indirizzi per l’attuazione della politica riguardante la multietnicità nella città di Roma”, votata senza alcun voto contrario e tuttora vigente, che parla di trasformazione multietnica e multiculturale (non più di semplice immigrazione!).
Gli albanesi di Roma la conoscono bene per l’impegno nella comunità in particolare con Besa, per i vari eventi organizzati negli anni, e in particolare modo per il progetto della scuola albanese che porta avanti da alcuni anni. Perché un italiano dovrebbe scrivere il suo nome sulla scheda elettorale?
I miei contributi per la comunità albanese a Roma raccontano un po’ la mia storia, chi sono e da dove vengo. Il pilastro della mia cultura è una grande dose di volontariato per fare ciò che serve e il senso dell’altruismo raccolto nel seno della tradizione albanese.
Penso che il contributo alla scuola di lingua albanese è troppo poco rispetto a quelli che siamo ma intanto è un appello alla comunità affinchè capisca che questo è l’unico modo per conservare la nostra identità culturale come popolo anche fuori dalle frontiere.
Per farlo abbiamo anche iniziato le trattative per aprire un’altra sede nelle periferie della città, laddove risiede quasi tutta la comunità ma serve il contributo di tutti, consapevolezza e tanti volontari. Altrimenti per portare avanti un progetto di lunga prospettiva sulla nostra identità, sono troppe le difficoltà che vengono fuori in una città come Roma, acuite dal fatto che vedo la comunità ancora lontana da questo appello, anche perchè mancano i luoghi comuni per stare insieme. Una voce sola, un’associazione non basta. Noi ci proviamo, ma rimane una grande sfida!
Il voto degli italiani? Sì ci spero, semplicemente perché parlo della crescita della città e non solo della condizione degli immigrati. Per questo penso che gli amici italiani votino per il programma piuttosto che per l’origine della persona. Senza una proposta credibile il cittadino non vota.
Occorre superare il senso d’inferiorità di essere minoranza per cui siamo 5 candidati stranieri e ognuno richiama solo le proprie comunità al voto. Questo nostro atteggiamento non fa che confermare che c’è una separazione netta tra stranieri e romani, noi e loro. Dobbiamo alzare il livello della proposta verso quella politica che inizia a far stare insieme tutte queste realtà. Se non si inizia a conoscere e a comunicare con esse, facciamo presto a stimolare i presupposti per aumentare i pregiudizi.
E il mio “patto d’integrazione” parla di questo, della trasformazione della comunità romana in società multietnica e il mio programma come candidato non è una risposta ai populisti ma all’interesse generale della città, basata sui suoi veri bisogni.
Quali sono secondo lei i problemi più grandi di Roma per quanto riguarda l’accoglienza e l’integrazione?
A Roma, come in tutta Italia, esiste il SAI (Sistema di accoglienza e integrazione). Questo sistema è rigidamente riservato ai titolari e ai richiedenti protezione internazionale ed esclude, lasciandoli sulla strada, qualsiasi altro migrante indipendentemente dal suo bisogno. Anche riferendoci alla sola categoria di migranti ammessi all’accoglienza sappiamo che nel 2020 i posti disponibili sono in totale 1.521, di cui però la metà vuoti. Nonostante la domanda sempre più pressante che sappiamo esserci, alla fine dello scorso anno gli accolti erano solo 735 in tutto. Una situazione dell’accoglienza a dir poco imbarazzante, evidentemente manca completamente la conoscenza della domanda di accoglienza a Roma e quindi la capacità di programmare l’attività del sistema.
Ancora peggiore la situazione dell’integrazione, che secondo la teoria consiste nel rendere possibile la partecipazione dei cittadini immigrati, tutti e non solo quelli ammessi al SAI, a tutta la vita ordinaria e straordinaria del territorio romano. Le istituzioni cittadine si sono fermate all’accesso ai servizi per l’inclusione sociale, che pur essendo importante, non prevede alcuna partecipazione attiva da parte degli immigrati e scarica sugli immigrati la responsabilità di supplire individualmente alla mancanza di un percorso di partecipazione. Lo strumento principale per svolgere il processo d’integrazione è la mediazione interculturale, non solo tra gli operatori italiani e gli utenti immigrati ma anche nei rapporti con le comunità immigrate, bene, a parte qualche ufficio comunale questa pratica è disattesa nella programmazione istituzionale e anche nella sanità risulta insufficiente alla domanda della città. Solo l’intervento europeo, la disponibilità del Terzo Settore e la buona volontà personale di singoli operatori impedisce di scorgere il buco che la mancanza di mediazione interculturale scava sempre di più nell’integrazione.
Il fatto è che nessuno rileva le occasioni e le realtà interculturali che pure vivono nei territori e soprattutto nessuno li spiega alla comunità cittadina, che perciò non se ne accorge e rimane preda dall’unica narrazione dei media ispirata alla paura e al conflitto.
Ci spiega la sua Roma multietnica e quali sono i i punti salienti del “Patto per l’integrazione” per realizzarla?
La mia Roma multietnica e multiculturale è quella di tutti i romani, di quelle oltre 2.800.000 persone che vivono nella nostra città e che ogni giorno fanno esperienza di intercultura interagendo dovunque e continuamente con quell’almeno il 13% di cittadini di origine immigrata, ai quali vanno aggiunti quelli che hanno acquisito la cittadinanza e che a quel punto spariscono dall’anagrafe. È la Roma delle 180 comunità di origine culturale differente, dei matrimoni misti che aumentano, dei centomila nuovi visi di bambini e adolescenti che popolano le scuole romane, dei tanti accenti linguistici che sentiamo ai distributori di benzina, al bar, fra i collaboratori domestici, i giardinieri, i muratori, nella campagne. Ma soprattutto la Roma multietnica e multiculturale dei romani, di tutti i romani, è quella invisibile, quella nuova delle origini culturali diverse che si confrontano nelle nuove famiglie, magari nella diversità religiosa, delle dinamiche di crescita dell’identità dei bambini, della discriminazione strisciante, dell’identità e del valore dei figli della multietnicità, degli eventi magari piccoli di nuova musica, arte, cinevideo, festival, feste nazionali. Questa è la nuova Roma multietnica e multiculturale di cui ai cittadini manca il panorama e che quindi non può apprezzare.
L’integrazione si fa in due, perciò il primo progetto è quello di mettere a disposizioni del territorio romano un osservatorio, che ora non c’è, che ai cittadini faccia conoscere i territori che diventano multietnici e multiculturali e alle istituzioni come gestirli politicamente e amministrativamente. Sulla base della nuova indispensabile conoscenza il secondo progetto: la costituzione di una nuova Commissione Permanente del Consiglio Comunale politiche della multietnicità e multiculturalità che si occupi di predisporre un programma interassessorile di comunicazione ai media e ai cittadini che trasmetta alla cittadinanza la visione reale, condivisa e non conflittuale della convivenza multietnica e multiculturale reciproca. A completamento di questo il quarto progetto: stabilire e organizzare un luogo e un’attività strutturale d’interazione tra le nuove leadership multietniche e multiculturali ormai nate e l’Ufficio di progettazione europea del Comune. Roma è cambiata e continuerà a cambiare e il Comune deve dotare la città dello strumento principe per accompagnare il cambiamento: l’Agenzia di servizi di mediazione interculturale mista pubblico-privato che da una parte garantisca al territorio mediatori interculturali preparati e dall’altra impedisca che la competizione di mercato fra produttori dei servizi di mediazione penalizzi i singoli mediatori interculturali deprimendo la qualità delle prestazioni e il relativo compenso.
Per i cittadini albanesi e le comunità straniere in generale cosa vorrebbe fare?
Sono convinto che non si possa fare qualcosa per le comunità immigrate senza coinvolgere anche i romani italiani, questo è il senso del mio “Patto per l’integrazione” che vorrei facesse lavorare insieme comunità immigrate e comunità dei romani per stare meglio tutti! Vorrei perciò aiutare il Comune a progettare i suoi contratti operativi: con i cittadini stranieri ovvero trasparenza, comprensibilità e fiducia reciproche; con la città ovvero multietnicità e sviluppo nel miglioramento dell’occupazione, nell’internazionalizzazione della produzione, nell’internazionalizzazione culturale; con tutti i cittadini ovvero vivibilità della città multietnica, che vuol dire visibilità della multietnicità e multiculturalità, pari opportunità, non discriminazione, qualità dei servizi.
Insieme ai contratti vorrei riuscire a fare una cosa cui tengo molto: la valorizzazione delle leadership dei giovani formatisi nella Roma interculturale, come protagonisti preziosi e ineguagliabili a disposizione del benessere cittadino. Multietnicità, multiculturalità, mediazione interculturale costituiscono la visione del futuro di una città cosmopolita che Roma può ancora fare in tempo a diventare.
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