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Nella notte tra il 26 e 27 agosto del 1950 Cesare Pavese si uccideva in una stanza di Albergo di Torino

Di Pierfranco Bruni 

Ci fu il silenzio in quella notte assordante di una vuota città che respirava la solitudine di un fine agosto. 1950. 26/27 agosto. Cesare sciolse le bustine di sonnifero in un bicchiere. Aggiunse l’acqua. Attese di scendere nel gorgo muto. La dolce morte che si annunciò soltanto il giorno dopo. Albergo Roma. Torino.

Quel rito che divenne mito del vivere e del rinascere degli dei da Leucò greca che dialogò nelle notti bianche dostoevskijane toccò il Vico dell’uomo antropologico. 

Cesare (Pavese) non chiese di restare nella tristezza. Cercò. Non sapeva forse che non occorre cercare come insegnò Maria Zambrano. O forse lo sapeva bene. Ecco perché cercò. Non trovò. Forse sapeva di non trovare in quella notte torinese. Scese nella solitudine che abita il limite e smette di stanziare nel nostos. 

Così infarcito di mito, di grecità conosciuta, oltre le letture, tra le sponde del greco mar di Brancaleone, in cui le donne portavano le anfore in testa e il vento cantava Ibico negli echi e nei passi della rugiada sulla battigia. Il tempo non cancella. Il tempo resuscita istanti di cuore chiamati ricordi. 

Scrisse fino a qualche giorno prima. Scrisse per non scrivere più quel mestiere di vivere che è stato un vivere scrivendo. Si impadronì di Nietzsche fino a tradurlo nelle viscere del bene e del male e si immaginò un Zarathustra tra le rive di Siddartha. Si impadronì di Junger tanto da recuperarlo in un mediterraneo del sogno e della follia comparandolo al Vico della scienza oltre il barocco. 

Sottolineò il senso della tradizione fino a diventare un impolitico come il suo Thomas Mann che fece della montagna un incantesimo. Non ebbe timore di nulla. Non si considerava un maestro. Era un maestro nel linguaggio delle memorie delle civiltà tanto da raccogliere le testimonianze di Mircea Eliade in una visione in cui il labirinto non ha nulla del caos perché il suo Ulisse ha bisogno del focolare domestico. Il paese. Un’isola che ha radici e profezia. La sua Itaca nel destino del religioso sentire la morte dentro la vita. 

Si fermò con Circe e con Calipso e non accettò, come Odisseo, l’immortalità. Pavese non è soltanto lo scrittore delle Langhe. È il poeta che visse con gli dei nella Parola e seppe tessere quella ragnatela che dal suo esilio in Calabria creò e intrecciò l’insieme dei mari del sud e un fuoco grande con Bianca Garufi recitando la terra e la morte e e quegli occhi che avranno la morte. 

Confessò costantemente la sua sapientia partendo dalla caverna platoniana, rifugio dalla modernità, sino ad Alessandro Manzoni tanto che ebbe modo di scrivere nel suo Diario in data 15 maggio 1944: “… il primo romanzo riuscito -I Promessi Sposi- è la maturità di un grande lirico. Ciò deve aver lasciato tracce nel nostro ideale narrativo”. Il senso tragico di Manzoni lo coinvolse proprio in una definizione lirica. 

La Tradizione come rappresentazione non del reale, bensì della coerenza di una memoria non storica. Sublime. Estetica. Inquieta nel dipanamento del nostos che raccolse nei nostoi del suo pellegrinaggio umano e non cantos greco in piena scena patica. Si suicidò per dissolvenza di estremi e di involontario ordine. Se avesse navigato disordinatamente anche in quella sera di agosto del 1950 non avrebbe cercato e non trovato. Sarebbe rimasto in una attesa oltre la religiosità soltanto, perché i suoi passi verso la cristianità erano in punto di arrivo. 

Non si uccise per Costance o per tutte le donne e gli amori vissuti e persi. Era già distante. Molto più vicina era ritornata ad essere Bianca. Per non scrivere più. O per scrivere altro oltre la notte. Un chiaro di bosco in cui albeggiava l’aurora. A giocare di metafore non è facile. Ma Cesare nell’anima coltivava la metafisica al di là del bene e del male e dentro i crepuscoli degli dei.

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