– La coscienza di Mary –,
Presentazione e note di Mauro D’Castelli, Postfazione di Antonio Catalfamo, Reggio Calabria, A. G. A. R. Editrice 2024, pp. 376 L’apertura è una struggente poesia: Vattindi figghia “vattene figlia” (pp. 43-46), che nell’afflato e passione per le ingiustizie e i soprusi di cui è vittima la terra calabrese ricorda le poesie di Ignazio Buttitta. Anche il capitolo I si apre in poesia: il lettore è invitato ad andare oltre la prosa del romanzo, a gustare il ritmo delle parole che parlano di notte e di stelle, e d’amore.
L’incipit è un percorso all’indietro, verso il passato mai dimenticato, coi suoi orrori e le sue anghe-
rie eternamente rivissute da Mary, innocente vittima di complotti malavitosi. Viene abbandonata da tutti in ospedale, dove deve dare alla luce Priscilla, una figlia fortemente, eroicamente voluta e desiderata. Procede a sfumature, questo libro, e dunque dal passato funesto si arriva insensibilmente ad un tempo e un luogo “oltreoceano” dove Mary gode dell’amore del principe, un amore immerso nella poesia dolce del paesaggio. Qualche rigo più avanti, tuttavia, riappare la madre-matrigna che profana la tomba di Mary. S’ingenera nel lettore il dubbio se la Mary di cui si racconta sia viva o morta, ma di ciò nulla può dirsi davvero, trattandosi di un personaggio letterario, che è nel contempo vero, autobiografico, creato dall’esperienza di chi racconta o scrive, eppure è anche altro: fanta-
sma che il lettore plasma e ricrea secondo la sua cultura e sensibilità. Dunque decidere se considerare Mary viva o morta equivale, penso, a vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. In effetti, la tomba di Mary viene trovata vuota, come il sepolcro di Cristo il giorno di Pasqua (un giorno peraltro ricordato all’inizio del Capitolo).
Ciò può ingenerare gioia (Cristo è risorto – Mary è viva!) o frastornazione, come avviene nella madre di Mary, che ingiunge ai figli di ritrovarla viva ad ogni costo perché vuole accoltellarla e farla finita.
Nel Capitolo II l’atmosfera è quello di un sogno, o di tanti sogni uno dentro l’altro inframmezzati ad
una realtà anch’essa sfuggente. Dapprima è il sogno di una notte d’amore, che al risveglio di Mary si rivela in parte, inspiegabilmente, reale. La dimensione del sogno penetra nel reale e lo condiziona: un quadro sembra avere la funzione di specchio, come quello attraversato da Alice. Mary appartiene, ormai, ad una dimensione trascendente. Come le figure (oserei dire “bambole”) di Chagall, Mary s’innalza su monti e vallate fino ad abbracciare in visione la Terra intera.
Com’è consueto nella poetica liuzziana, che tragicamente mette in campo luce ed ombra, anche l’atmosfera onirica di questo capitolo sfuma talvolta nell’incubo, con voci minacciose che si odono nelle stanze adiacenti a una torre, un’aula di tribunale dove la giustizia pare defraudata. Però è proprio la naturale frequentazione del mondo dei sogni (un mondo non necessariamente finto e ingannevole come
normalmente viene considerato) a permettere a Mary di dimenticare “la solitudine di quella giornata e l’umore della tristezza, che sembrava sfiorarla, vischioso, attaccaticcio” (p. 65).
Per dirimere la questione, se Mary e la sua storia appartengano alla realtà o al sogno rifletto sulla
presenza della luce: “La luce calda / e rossastra sembra rianimarmi” (p. 72). Da ciò deriva
l’importanza dell’occhio e dello sguardo (di Mary, di Maria Teresa Liuzzo e del lettore). Occhio e
sguardo dicono l’esserci: “vedo, anzi, guardo, osservo, dunque sono”. Partecipa di questo significato anche l’”occhio di bue” (p. 73) che pare inquadrare una scena teatrale ripetitiva. La luce è quella viva della Calabria, intessuta di miti greci, luce che crea ombre nette nel paesaggio, in un contrasto dialettico fra vita e morte (e Mary parla, a p. 76, dell’ombra materna, come se la morte combaciasse con la madre), contrasto che colgo tra Mia, la viva bambola di Mary e il feto abortito dalla madre di Mary, che lei trova in giardino mentre se lo contendono cani e gatti: “Era una bambolina di viva carne: sembrava un giocattolo” (p. 74). L’occhio illuminato di Mary percepisce la morte in quel misero corpicino e l’aver visto, l’essere stata, come si dice nel linguaggio poliziesco, testimone oculare, la rende pericolosa agli occhi della madre. La luce, tuttavia, proietta Mary oltre l’orizzonte del contingente, verso l’eterno: “Era già sera, ma la linea dell’orizzonte restava accesa di una luce violenta, […] e fu a quella vivida luce che la libertà mi si rivelò” (p. 76). Mary sa, tuttavia, che il vedere implica responsabilità, “perché quanto aveva visto non poteva passare sotto silenzio” (p. 79).
E dunque oltre alla luce conta la parola, quella parlata, ma soprattutto, per Maria Teresa Liuzzo,
quella scritta, anzi cantata. Mi sembra che le parti in versi costituiscano inserti autobiografici della
poetessa, come una Vita Nova al contrario. Voglio dire che è come se le parti in versi di questo libro
fungessero da spiegazione del romanzo in prosa, o meglio da introduzione, dato che i versi sono
spesso posti a guisa di incipit dei capitoli. Nei versi la poetessa, “trafitta dall’urgenza della scrittura” (p. 83) raggiunge le sublimi sfere celesti della consapevolezza che poi trasfonde narrativamente.
Ed effettivamente la prosa, nel descrivere ambienti orridi e situazioni familiari raccapriccianti che paiono ispirati a certe scene dei bassifondi metropolitani di tanti film e romanzi criminali, ricalca l’andamento tragico dei versi, dove parole preziose, termini dialettali, allitterazioni ed altre forme espressive rendono la drammaticità ben reale di ciò che Maria Teresa Liuzzo ha vissuto.
Ma è nel racconto in prosa che si sublima il dolore vissuto, anche attraverso il riferimento a pittori
come Van Gogh e Lucian Freud (p. 89), dalle immagini espressionisticamente tragiche o ironiche, proprio come espressionistico è il linguaggio della madre di Mary che scrive al marito: “E anche il suo ostrogoto rispuntava, ancora più crudo e spumeggiante di zeta, erre e ch/gh aspre” (p. 91).
All’ostrogoto della madre di Mary contrasta il dialetto adoperato da Maria Teresa Liuzzo nelle parti poetiche: un dialetto tragico, eppure, anzi proprio per questo, forte, incisivo, atto ad esprimere tutta la tragedia di un ambiente familiare corrotto. È nella scrittura poetica che Liuzzo ritrova “la grazia illuminante / in un momento e sublime la parola / spaginata – un’apertura nel cielo / un’intricata
Rosa di Gerico / sul bianco della carta – stampata” (pp. 94-95); l’apertura nel cielo, la rosa, indicano sublimazione ed equilibrio, come s’addice ad ogni opera letteraria che si rispetti.
Al caos del racconto in prosa, che è dirupo, selva oscura, “alberi abbattuti”, “tettoie divelte” (p. 105), si contrappone l’ordine dei versi, che descrivono il cerchio del tempo, la ruota del pavone, il roseto dorato (giardino chiuso della simbologia sacra). È vero che luci ed ombre si scorgono sia nelle parti poetiche sia in quelle narrative, ma mi pare che nelle prime positivo e negativo si sublimino in più alti sensi simbolici tracciando “armonie” nello sguardo della poetessa (p. 104). Nei versi e nelle prose sono, però presenti passaggi sfumati fra luci ed ombre, pagine dove assistiamo alle efferatezze dei familiari di Mary e pagine dove, quasi senza accorgercene, entriamo in un mondo diafano e luminoso dove Mary si muove come angelo o fata. Questo passaggio – Dante direbbe “trasumanar” – è possibile grazie alla scrittura: Mary “ritornata a quell’atto fondamentale, la scrittura, proprio ora poteva – dopo una tale apoteosi di radiosità e di splendore – permettersi di sospirare con piena indulgenza verso il mondo e coloro che non avevano saputo amarla” (p. 106). Altrove troviamo: “La luce della parola è il mio rimedio magico / per ridurre l’oscurità e dominare anima” (p. 107). In un capitolo stupendo, il VII (pp. 107-122), quasi tutto in versi, colgo il nocciolo della poetica di Maria Teresa Liuzzo, che pone sulla bocca di Mary parole splendenti: “Io generai luce, non si addiceva alla mia natura l’oscurità / benché amassi essere luna in un cielo notturno” (p. 120). Qui i versi evocano scenari cosmici, alternati a drammatici dialoghi in dialetto che però mi fanno pensare ai racconti dei cantastorie, dove la tragedia si stempera, prende ordine dal semplice, popolare uso di cantarla. È, secondo me, il capitolo che più affonda nell’humus dei miti greci, ampiamente rievocati da Mary, che se ne confessa avida lettrice. Non a caso, le primissime righe del Capitolo VIII (p. 123) sono dedicate alla scrittura come verità che non deve essere nascosta, e l’autrice cita Vasilij Grossmann.
La scrittura, intesa come lingua e stile, esplode in una multiforme pirotecnia nel Capitolo IX (pp.
131-138). Poesia e prosa, lingua e dialetto, si assumono il compito di esprimere tempesta e sereno, luci ed ombre del racconto. E qui, specialmente negli inserti in versi dialettali, la scrittura assume veramente un ritmo rotto, frantumato, passionale, asmatico, tanto da farci comprendere la sofferenza e da farcela assumere in noi. Specie in poesia, difatti, il lettore è (dovrebbe essere) portato a ricreare dentro di se il respiro esplicitato dalla scansione metrica. La scrittura, poi, è anche testamento, materiale e spirituale, e Mary, dopo aver presagito e preparato la sua morte, stilando in prosa un testamento esemplare, stempera la sua scrittura in versi estatici dove natura e luce si compenetrano
in leggerezza di pensiero, pur nella pesantezza tempestosa del periodo della pandemia di Covid-19.
La scrittura è riscatto: “Il destino dei miei accusatori – dice Mary – è decifrato con prodigiosa ed equa sollecitudine dal bianco di luce della mia scrittura” (p. 147). La scrittura è antidoto e memoria, puntello e conoscenza. “Grazie alla scrittura – dice a Mary una profetessa – hai rimosso quel velo / che nasconde – i latini dicevano ‘concelat’ – / ai nostri occhi la conoscenza della realtà autentica” (p. 167). È per questo che Mary/Maria Teresa Liuzzo può scrivere: Mi hai attesa tutta la vita, o mia parola,
agitata come il vento tra le foglie d’autunno.
Nessun dono per te avevo tra le mani spoglie, se non il tuo corpo fresco di corallo, avvolto nei merletti di un lenzuolo.
Si torceva il verso dentro il corpo, come il sangue trafitto di una cerva. Ma all’atto di scriverlo ogni sensazione nebulosamente infantile, eccessiva, puerile lasciava sul foglio spazio a una magnifica
grafia tondeggiante, data dal roteare della penna animata dallo Spirito (p. 170).
Il roteare della penna animata dallo spirito mi ricorda certi dettami della calligrafia cinese, dove esiste uno stretto legame fra la mente, il braccio e lo strumento di scrittura. Il tracciare la scrittura,
l’attenzione alla calligrafia, permettono la realizzazione del proprio essere, sicché Mary può dirsi “domatrice / di parole” (p. 173) e possiede addirittura un dizionario suo (cfr. p. 178). Mary, che a un certo punto esclama: “Benedetta sii parola” (p. 350), scrive “per non smettere di essere donna” (p.312) e dona la sua scrittura a tutti, perché nulla va tenuto nascosto; perciò è significativo dove parla delle “pagine di un diario, abbandonato aperto / con l’originalità della sua scrittura condivisa / con chiunque avesse voluto leggerlo. Sfogliarlo. / […] / Scrivevo / pensando che un giorno avrei lasciato quel diario / su di una panchina nel parco: come una confidenza / pubblica” (p. 246).
La scrittura ha una funzione sociale, perché deve raccogliere le grida degli animali (il popolo sofferente?): “il loro urlo disperato doveva essere raccolto dalla poesia e dalla scrittura per avvertire del pericolo, per ridare carica ai nervi logorati e intossicati da anni di menzogne politiche e civili” (p. 351). Mary è personaggio poliedrico: attraversa spazi e tempi rivivendo avventure d’altre vite e d’altri secoli: storie di pirati e vagabondaggi nei mari del Sud. Attende che la civetta raffigurata su un’antica moneta greca si posi sulla quercia secca (cfr. p. 233). Gli elfi la trasformano in un vispo maschietto e lui/lei può attraversare indenne sofferenze e raggiri (fugge dalla madre-strega tentatrice). In realtà il suo è un “corpo radiale / o astrale” (p. 154). Quello che più conta, però, è che la sua nuova veste maschile (il suo animus?) rende Mary più forte, sicché può denunciare dei vandali malavitosi che le
hanno distrutto un frutteto, riconoscendo uno di loro dalle iniziale incise su un accendino che costui aveva perso. Anzi, addirittura li aiuta a trovare lavoro e permette loro di condurre una vita onesta, favore di cui la ringrazieranno. Mi pare di capire che la controparte maschile di Mary è figura della sua ombra, una parte complementare ma necessaria. L’ombra di Mary “diventava più forte quando lei era più debole” (p. 159). Mary, essere completo di yin e yang, s’immerge nell’esperienza di visione universale, si sente macrocosmo, e in tale immensità i mali terreni e gli accidenti della sua vita sfumano e si disfano. Il suo status di viva-morta le consente di svelare (nel senso di togliere il velo) l’essenza simbolica del reale, intuendone il mistero di morte e rinascita: Ma eccola, dal regno d’alberi tralignante, ha portato fuori un brutto e grosso ramo, che per lei simboleggia il legno storto dell’umanità, lo pone verticalmente nel fuoco che ha acceso al limitare del bosco, e osserva la pioggia d’oro, i
lapilli luminescenti della leggenda di Danae, trasformare quel legno in un rogo nel quale le sue membra, le fibre ultra snelle si contorcono e anneriscono, fin che – in quella somma distruzione – la pura fiamma ha il pieno sopravvento. E quando, sotto lo sguardo di Mary, tutto è andato distrutto, e l’elemento maligno, che faceva paura, è momentaneamente scomparso, da quella culla di cenere nasce ancora nuova vita. un’acqua rinascente simile al fiotto che zampilla da sotto un rovere, poco distante da quel falò, ricoperto alla radice di tanto muschio, con gibbosità di un bel verde acqua.
Mary amava soffermarsi a osservare quel minimo accadere, quello scorrere spontaneo, annesso alla forza di quell’albero, su un tufo che sembra smalto o ceramica, di cui lei lodava i riflessi equorei, la lucentezza viva rispetto alla smunta sostanza bruna del legno arso, al tanè dei rami avviluppati dalle fiamme (p. 234).
S’espande il racconto in fitti cespugli spinosi e fioriti, “Terapia o tragedia? Alchimia o nero sortile-
gio?” (p. 200), resoconti quasi giornalistici, grotteschi e crudi da “teatro dell’assurdo” (ibidem), sono inframmezzati da illuminazioni liriche estese in cieli immensi. Pare quasi di ascoltare un immortale cantastorie, una controparte maschile e popolare di Sherazade, che sdipana i suoi “conti” spaziando da Annibale alle storie del Corano o della Bibbia, da vicende di paese a squarci lirici. Ma i versi dialettali assumono sostanza di proverbi o ritmi di danza, intrecciandosi con variato contrasto alle prose e ai versi in lingua.
Maria Teresa Liuzzo insegue miti e storie ricavandone, come i veri poeti, lumi per illuminare il presente. La poetessa, insieme a Mary, appassionata di mitologia, insegue il vario peregrinare di Ulisse ritrovandone le orme nel mondo di oggi. Perciò i luoghi geografici s’incontrano e “la spiaggia calabra / diventava la sabbia del Sinai” (p. 241). È lo spazio dei pensieri, gelosamente preservato da Mary, a poter contenere di tutto: Il mio spazio interiore
era colmato da un presente stabile, pervasivo
nel cui fondo nessuna macchia si fermava,
e nessuna immagine… eppure c’era tanto posto
che vi entrava tutta la terra, con i suoi paesi,
le sue metropoli, le sue genti e i loro volti,
e le parole, i suoni (p. 253) Mary, “soffio divino e pneuma” (p. 270), secondo le parole di un ammiratore, attraversa il mondo con spirito panico di cui mi paiono chiari simboli il bosco e la farfalla, immagini presenti qua e là in questo libro. Il bosco è il mondo, abitato da strane creature familiari a Mary; la farfalla, che spesso Mary incontra e ammira, è l’intuizione poetica e profetica che accompagna lei e noi lettori nel corso della narrazione. Nonostante lei viva una vita immersa nei mali del mondo (raccapricciante la de-
scrizione della casa di Cecilia – un’amica di Mary – invasa dai topi!), vede sempre la vita fiorire:
“era primavera su ogni ramo” (p. 277); la luce in cui è immersa dopo la morte le mostra, come le
ombre di sole fra il fogliame del bosco, il lato positivo del reale e cita un’annotazione di Dostoevskij: “Non comprendo come si possa passare davanti ad un albero senza essere felici…” (p. 278). L’ultimo capitolo, il XXI (pp. 287-353) è il più poetico e ricco di contrasti e chiaroscuri, “il gioco vorticoso dei toni chiari scuri e brillanti” (p. 336). Si accentua il conflitto fra dialetto e lingua, prosa (anche in dialetto – pp. 321-22) e poesia (con versi ora lunghi ora brevi disposti come ad onde), ed è qui che troviamo i versi riferiti al titolo del libro: “Caddero piogge verdi di smeraldi, / e la fantasiosa personificazione dei poeti-profeti / pronunciò parole-elfi, un bouquet di gnosi / e fede rinnovata nel meditativo mio viaggiare / per il cosmo” (p. 294). In questi versi mi pare riassunto il senso del libro: le piogge verdi di smeraldi mi fanno pensare all’ispirazione poetica, preziosa come pietre rare; questa ispirazione si personifica, si incarna, nei poeti-profeti, che sono un po’ Mary, un po’ Maria Teresa Liuzzo; il bouquet di gnosi rappresenta la conoscenza che la poesia dona a chi la inventa e la scrive e a chi la legge o la ascolta; il meditativo viaggiare per il cosmo è la trasfigurata, mistica e mitica vita di Mary, il cui sguardo “non era mai diretto a terra / ma in cielo” (p. 302). Il motivo ritorna diverse pagine dopo, in un sogno in cui compare la nonna di Mary, che le fa capire l’oltre, ciò che è al di là della morte: “Questo luogo per te sconosciuto e inaspettato, è uno spazio di beatitudine, una pioggia verde di smeraldi – il mare agitato del mondo è solo sullo sfondo” (p. 348). Mary ritorna nel mondo acquistando peso e plana nel mare dello stretto di Messina sentendosi felice e assorbendo amore dal sole. È un sogno? Lei sembra rivivere la sua vita mentre nuota per raggiungere la costa calabra. È in questa simbolica traversata che si chiude il libro, che nelle pagine finali ha il sapore del Paradiso dantesco. L’amor che muove il sole e le altre stelle diventa, qui, lo spazio cosmico visto attraverso le intuizioni scientifiche della fisica quantistica e delle onde gravitazionali.
Maria Teresa Liuzzo fa, in questo caso, uso del linguaggio scientifico piegandolo ad una significa-
zione poetica e letteraria che esprime un afflato mistico. Giunti alla fine, ci accorgiamo che il libro è un poema spiraliforme, che ritorna su storie già raccontate, ricordi poetici, motivi mitici e tragici.
Una spirale fatta di sole e di fango, ma che si espande verso la luce e nella luce trova la sua unità, e con la parola luce il nostro viaggio termina nella pace: “Tutto è unità e l’unità è luce” (p. 353).
Antonio Ri