di Atanasio Pizzi, Architetto Basile
– Quando i canali culturali dei midia e istituzionali di ogni ordine e grado, trattano, analizzano o esprimono pareri sui centri abitati di radice arbëreşë, ovvero i Katundë, questi diventano argomento variegato di interpretazioni di epoche con cui non hanno nulla da condividere, perché sono la risorsa abitativa di luoghi in comune convivenza con le cose della natura che protegge l’uomo.
Ogni Katundë e, mi riferisco a quelli nati o ripristinati dopo la morte dell’eroe nazionale Giorgi Kastriota, e sino all’essedo concordato di termine del impero romano d’oriente del 1533, rispetta lo stesso ordine dell’edificato secondo quattro rioni tipici, che perimetrano spazi urbani secondo iunctura dei gruppi familiari allargati degli arbëreşë.
La chiesa, l’antico loco indigeno, il promontorio, il nuovo edificato arbëreşë, sono il sunto dei rioni da cui prende avvio lo sviluppo di ogni Katundë, questo rappresenta il sostantivo in grado di riassume il valore di tutto il centro antico e nel corso del tempo di quello storico definendosi in lingua parlata della minoranza, luogo di movimento: Ka – indica un luogo; Tundë – sinonimo di Movimento.
Comunemente si riferisce di un “centro di radice Arbëreşë” definendolo, Borgo, identificandolo con disposizioni e tipologie urbane circolari e sociali, appellate Gjitonie, Sheşi o Quartieri, per poi tipizzare questi ultimi, nati attorno o nei pressi di palazzi nobiliari, dove sono conservati, pergamene, costumi e cose di varia natura, perché trascinate nei bauli ai tempi della diaspora del XIV secolo immaginando l’era medioevale come quella moderna della globalizzazione.
Si può da subito notare che nulla di ciò appartiene alla “Regione storica diffusa e sostenuta degli Arbëreşë”, quando si prende la via di approfondire argomenti e sostantivi, senza averne i requisiti di studio specifico, ma neanche basi di semplice lettura di un comune dizionario.
Specie se ci soffermiamo sul significato di Borgo, Sheshi e Gjitonia; secondo cui il primo dovrebbe essere una città murata e i Katundë degli Arbëreşë sono tutto e non vi è murazione che ne definisca termini e perimetri; il secondo dovrebbe essere uni spiazzo o piazza piccola e invece è un “Rione”, dove la Iunctura familiare è fatta da Katoj, Vicoli ciechi, Orti, Vally,
Supportici e viuzze strette e articolate; il terzo dovrebbe essere uguale al vicinato, ma se fosse realmente cosi, perché non lo si specifica e si usa questo sostantivo invece di Gjitonia e si spiega, cosa vuol dire? come qui di seguito faremo con dovizia di particolare ogni cosa.
Un Borgo è l’esatto contrario di un Katundë, in quanto, quest’ultimo, è realizzato secondo i canoni della città aperta, la stessa che oggi l’era modella appella come città metropolitana; lo Sheshi è un rione di Iunctura sociale, che non può essere definito da quanti non hanno titoli specifici in campo urbano o di valori sociali della storia degli uomini.
Uno Shëşi è un insieme costruito, fatto da case, vicoli articolati, orti, Vally e suppostici, dove la percorrenza del viandante ò regolata dalla articolata e difficile percorrenza delle strade pubbliche dove sono apposte gradinate e archi per la lenta percorrenza, queste ultime strette e colme di accessi delle piccole Kallive e, il più delle volte non conducono a spazi liberi se non in articolati spazi definiti Vally o negli orti di Iunctura dove non vi è via di fuga.
La Gjitonia è un termine con il quale gli arbëreşë, si organizzavano socialmente, negli ambiti del centro antico, definito “luogo dei cinque sensi”, lo stesso condotto diretto e sostenuto dal Governo delle donne che parlano vestono e crescono le nuove generazioni secondo protocolli rigorosamente in arbëreşë
A tal fine è bene precisare che un centro per essere definito di radice Arbëreşë deve contenere all’interno del suo perimetro primario, i Shëşi strategici di prima epoca, ovvero; il Loco degli indigeni locali e la Chiesa, a cui fanno seguito nell’attimo della riedificazione arbëreşë il Promontorio, il Loco di approdo, tutti disposti per consentire l’articolarsi e il confrontarsi secondo i principi di iunctura mediterranea.
Queste ‘architetture’, sia che nascessero con l’intento di integrarsi nei diversi ambiti culturali, sia che facessero dell’isolamento e dell’essere difesi dalle cose naturali il loro tratto distintivo, hanno contribuito a creare spazi urbani e luoghi dell’abitare, dotati di caratteri tipicamente ‘Arbëreşë’, continuando a vivere e svilupparsi radicandosi nei vari contesti paralleli ritrovati.
Le epoche che vanno dal XIV secolo Al XIX secolo definiscono spazi, vie e l’edificato, che nel corso della forbice prima citata, assume diverse tipologie e di espansione planimetrica, volumetrica e del tipo architettonico.
Questi si possono riassumere in: monocellulare piano, poi altimetrico, con profferlo, sino al XVII secolo, per poi assumere dopo il 1783 edificando la conformazione palazzata, naturalmente secondo le categorie economiche e sociali in differente crescita.
La tipologia monocellulare che dal greco individua la cellula abitativa tipica, ovvero Katoj o Katoj dirsi voglia, è una cellula primaria che racchiude i bisogni familiari primari, di rifugio e produzione e conservazione degli alimenti primari della dieta mediterranea o, delle tra “V” in arbëreşë, Verë, Vallë e Verdüràtë.
È qui che i valori di casa e le attività comuni di proto industria trovavano agio grazie alla fratellanza familiare che univa le madri nel tipico governo delle donne e produceva alimenti di conservazione di raffinata e eccellenza.
La mono cellula primari si componeva di uno spazio quadrangolare disposto lungo il vicoletto di transito pedonale con il lato più corto che in genere non superava i quattro metri e quello più esteso perpendicolare alla strada che aveva uno sviluppo variabile e poteva anche raggiungere i sei metri e oltre.
Il pianoro abitativo era ricavato scavando e rendendo piano nel solido terreno per la porzione utile a descrivere il perimetro interno della mono cellula che non aveva alcun sistema fondale, assicurato dalla solidità del terreno e quindi il perimetro murario che descriveva lo spazio casa aveva appoggi differente per i quattro muri perimetrali.
Gli agglomerati diffusi arbëreshë nascono secondo regie disposizioni e grazie al modello di famiglia allargata, secondo quanto disposto nel Kanun.
I quartieri, del Katundë, ovvero Kishia, Moticèlleth o Kalivë, Sheshi, Bregù e Nxertath, o di espansione, rappresentano il percorso evolutivo seguito per restituirci l’attuale assetto planimetrico.
Il processo di trasformazione dell’ambiente naturale in quello costruito è avvenuto secondo i parametri morfologici, floristici, orografici e climatici; fondamentali per gli esuli, giacché simili a quelli della terra d’origine.
È in queste macro aree che le costanti dei sistemi urbani: il recinto, la casa e il giardino, hanno trovato l’ambiente ideale per restituire gli ambiti odierni; il recinto delimita il territorio, ove la famiglia allargata aveva il controllo assoluto; la casa, anch’essa circoscritta dal cortile e l’orto botanico era costituita da un unico ambiente in cui conservare le poche suppellettili e alimenti; il giardino è luogo della prima spogliatura, dimora dell’orto botanico e stagionale.
Nel periodo che va dal XV al XX secolo, gli esuli lentamente hanno riposto il modello familiare allargato per quello urbano e poi, in tempi più recenti vive quello della multimedialità.
Quando la famiglia allargata inizia ad assumere la conformazione urbana, da agio al realizzare dei primi isolati (manxane), secondo schemi articolati o lineari.
Inoltre lo sviluppo degli agglomerati tendenzialmente accoglie le direttive dell’urbanistica greca che allocava gli accessi degli abituri sulle strette vie secondarie, rruhat.
La Gjitonia, (dove vedo e dove sento, il governo delle donne), sin dal XVI secolo ha resistito alla modernità diventando il luogo della ricerca dell’antico legame indispensabile per la consuetudine arbëreşë.
La Gjitonia ha origine dal tepore del focolare, si espande con cerchi concentrici, nello sheshi e in tutte le direzioni delle articolate rruhat, sino a giungere negli angoli più reconditi dei territori comunali e non solo.
La Gjitonia si avverte, si respira, si assapora, si vede, si tocca, senza mai poter essere tracciata con precisi confini fisici.
Per questo gli agglomerati arbëreşë rappresentano il cardine che lega lingue, religioni e storie dissimili, in grado di produrre il modello d’integrazione più riuscito del mediterraneo.
Il piccolo abituro, shëpia, in origine realizzato con rami intrecciati poi con blocchi di terra mista a fango e paglia in tutto la nota adobe, in seguito, è stato ottimizzato attraverso l’utilizzo di materiali autoctoni più idonei come: pietre, calce e arena.
Dopo il terremoto del 1783 e la conseguente realizzazione della Giunta di Cassa Sacra, gli stessi ambiti urbani minoritari ebbero un nuovo sviluppo architettonico e gli agglomerati iniziarono a svilupparsi verticalmente.
Gli ambiti urbani calabresi assunsero una nuova veste distributiva che allocava i magazzini e le stalle al piano terra mentre le abitazioni erano al primo livello.
I successivi frazionamenti, richiesero l’uso delle scale esterne, profferlo, in quanto, non tutti avevano la possibilità di costruire nuove abitazioni, modificando radicalmente in questo modo le prospettive all’interno dei borghi. Il ciclo di crescita si arricchisce ulteriormente dopo il decennio francese, con la costruzione dei nuovi palazzotti nobiliari, espressione di una classe sociale emergente.
Ciò avviene solo per le classi più elevate perché quelle meno abbienti continuano a occupare i vecchi abituri e quella media esterna la nuova posizione sociale, imitando frammenti dei palazzi post decennio napoleonico.
Atanasio Arch. Pizzi Napoli 2024-07-14